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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

LA FOTO DELLA SETTIMANA  a cura di NICOLA D'ALESSIO
LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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IL FILM, IL LIBRO, IL BRANO, LA POESIA DEL MESE








Ogni mese viene recensito un film, un libro, un brano musicale, una poesia. E' l’occasione anche per approfondire eventualmente il genere cui l’opera recensita appartiene. Il film, il libro, il brano, la poesia del mese sono indicati nella colonna a destra, mentre le recensioni sono inserite qui. La rubrica il brano del mese è curata da Roberto Latini, quella relativa alla poesia da Chiara Passarella, mentre quelle relative al libro e al film del mese sono gestite da Roberto Rapaccini.

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BRANO DEL MESE (Estate 2018):  “CLASH WITH REALITY” (1990) dall’album “Cowboys from Hell” dei PANTERA

E’ morto quest’anno, in data 22 giugno 2018, il batterista dei Pantera Vinnie Paul. Egli fondò la band statunitense col fratello “Dimebag” Darrel Abbott, ucciso nel 2004 durante un concerto della band Damageplan, in cui suonava, per mano di un ex-marine che salì sul palco e lo freddò con una pistola (uccidendo anche altre tre persone). Il killer venne liquidato a sua volta da un agente. Vinnie aveva 54 anni. La carriera dei Pantera durò 17 anni dal 1983 al 2000 quando uscì l’ultimo e nono album da studio.  I Pantera sono considerati uno dei gruppi metal più influenti dagli anni novanta. Prima suonavano un genere più Heavy classico, poi con “Cowboys from Hell” ci fu un viraggio che ammodernò il sound e li fece entrare in un ambito di maggiore groove che oggi viene chiamato appunto “Groove Metal”, divenendo quasi un genere a sè. Il termine groove è riferito alla ripetizione del senso ritmico più legato all’uso della chitarra ritmica che della sezione ritmica basso-batteria. Ma le due cose naturalmente non possono essere scollegate. E’ un termine che veniva già usato per altri tipi di musica come il Funk e come il Jazz ma che per il metal segna una indicazione che si lega al periodo degli ultimi anni. Il
Groove Metal è ancora considerato una sonorità moderna nonostante abbia ormai circa ventotto anni di storia.

Il brano: “CLASH WITH REALITY” (5’15”)
Phil Anselmo - vocals
Diamond Dimebag Darrel - guitars
Rex Brown - bass
Vinnie Paul – drums

Inizia con la batteria, e si percepisce immediatamente la pesantezza del suo suono. Poco dopo entra in gioco la chitarra che determina il groove ritmico. L’impostazione chitarristica punta su un accordatura ribassata. Il ritmo ha diverse variazioni sia quando è presente la voce sia quando non è presente, ciò dinamizza molto la composizione anche senza usare la velocità. La potenza della canzone infatti non è espressa con la velocità ma con i suoni grevi e la vocalità aspra. La voce è roca ma ben impostata per avere sia toni bassi che note più acute, per cui non c’è monotonia ma una verve frizzante. Prima della parte solista c’è una sezione di 39 secondi che vive solo di Groove. L’assolo è breve e poi c’è un’altra sezione solo ritmica, a cui segue la ripresa del cantato. La velocità arriva solo nel finale. La tipologia di musica di questo pezzo è fortemente debitrice del Thrash Metal con una lezione imparata sia dai Metallica che dagli Anthrax, di stile prettamente americano. Qui il modo di cantare di Phil è assimilabile a quello di Hetfield dei Metallica. L’album “Cowboys from Hell” è ancora legato in alcune tracce, ad alcune espressività tradizionali, ma altri pezzi se ne distaccano molto. Questo pezzo è a metà strada tra la modalità iniziale dei pantera e quella futura, che già dal disco successivo (il sesto  “Vulkgar display of Power”), evidenzia la sua maggiore personalità, consacrandoli davvero come “Groove band”. Però oggi “Cowboys…” è disco di culto.

Il testo:
SCONTRATI CON LA REALTÀ
So che a volte
Mi sento invincibile
Sto annegando nella vita
Sono intrappolato da ciò che è inaccessibile
Torno con i piedi per terra
Sento il suono
Non c’è via di fuga
La nuvola oscura
Sta piovendo su di me
E mi sta bagnando con
Il peccato dei profani
Sento le sirene
Che stanno arrivando da dietro
Sbatterò la faccia
Contro l’occhio di vetro
Scontrati con la realtà
Lei gira la sua orribile faccia
Scontrati con la realtà
Con ciò che è indescrivibile
I cani si nascondono
Dove noi dormiamo
Questa è una melodia insignificante
In questa situazione non c’è
Niente tranne ciò che è giusto
La porta viene aperta con un calcio
E nessuno si muove
Perché sta entrando il problema
Che comanda il tuo destino
Vieni sfrattato e giudicato colpevole
Chi firmerà il decreto della vita?
Adesso questo diventerà
Il loro gioco morboso
Ma queste povere scuse
Stanno venendo fatte per questo mondo?
Ciò accresce il mio odio
Giorno dopo giorno
Scontrati con la realtà
Lei gira la sua orribile faccia
Scontrati con la realtà
Con ciò che è indescrivibile
I cani si nascondono
Dove noi dormiamo
Questa è una melodia insignificante

La band si sciolse in malo modo, con una lite pesante fra il cantante Anselmo e i fratelli Abbott, che non si stemperò nemmeno dopo la morte del chitarrista. Ad Anselmo fu vietato di avvicinarsi al funerale, sebbene quello si fosse recato in città per presenziare. Nota di curiosità è la questione della bara: quella di Dimebag fu fornita dai compatrioti KISS per volere degli Abbott stesso, proprio col logo dei KISS, e lo stesso è stato fatto per il fratello Vinnie, con l’aggiunta della scritta Van Halen, altra band famosa americana. SKY ROBERTACE LATINI

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LA POESIA DEL MESE (Estate 2018):   Tiepidi sere estive – Hermann Hesse

Tiepide sere estive
Adesso i tigli sono rifioriti davvero e la sera, quando
comincia a far buio ed è finito il faticoso lavoro,
giungono le donne e le fanciulle, salgono in cima alle scale
appoggiate ai rami e riempiono un cestino di fiori di tiglio.
Dai vecchi alberi, attraverso le tiepide sere estive,
giunge sempre un profumo dolce come il miele…
I bambini cantano giù sulla spiaggia e giocano con le
girandole di carta rossa e gialla… Nella polvere rosso-
-dorata della strada, api e bombi ronzano in cerchi
diffondendo una dorata risonanza.
         Hermann Hesse da Späte Prosa, 1951 (raccolta di brevi prose e iriche)

Hermann Hesse (1877 – 1962) è considerato uno dei più significativi autori della prima metà del secolo scorso. Noto per la sua vena narrativa, fu anche autore di saggi, memorie e poesie: 32 romanzi, 15 raccolte di racconti, 15 di poesie. In “Tiepide sere estive” il poeta culla il lettore con il profumo dei tigli in fiore, coi bimbi che giocano sereni sulla spiaggia, con le api e i bombi che ronzano alacri alla ricerca di miele. Una poesia breve ma dolce, che riassume davvero il meglio della stagione estiva. Più in generale si può dire che nella poesia di Hermann Hesse si ripresentano, in sintesi, molti dei temi e degli interrogativi tipici di tutta la sua opera: lo scarto tra materialità e aspirazioni interiori, l'ansia costante di rinnovamento spirituale, la concezione del dolore come mezzo per raggiungere ciò che lega intimamente e misteriosamente la sostanza individuale alle ragioni universali dell'essere. Come emerge da tutta la sua produzione poetica, la poesia è momento etico prima ancora che estetico e letterario; nella composta, essenziale eleganza dello stile, nella sua raffinata, musicale nitidezza, si esprime la necessità d'una tormentosa ricerca, attraverso il linguaggio, di un più elevato grado di coscienza e conoscenza.   Centrale nella produzione letteraria di Hermann Hesse è “Siddharta”. Non è un fatto riduttivo concentrarsi su quest’opera per quanto riguarda la personalità dello scrittore tedesco. Non lo è perché l’opera appare di una sincerità per così dire conclusiva. “Siddharta” racchiude l’universo di Hesse. Si tratta di un universo preciso, dove la spiritualità va ad occuparne la parte centrale, nevralgica. Hesse vive in una realtà difficile e composita, caratterizzata dalla sbrigatività e dalla spietatezza. Due guerre mondiali ci stanno nel mezzo. Le dittature di Mussolini, ma soprattutto di Hitler e di Stalin hanno fatto del materialismo una vera e propria aberrazione. Poche e poco significative le reazioni perché è soprattutto lo stupore, per tanto disastro, a dominare la scena. Gli intellettuali sono increduli. Tanto più lo sono coloro che coltivano interessi più alti. Hesse entra in contatto con diverse esperienze speculative, diventa un amante della cultura indiana, si fa buddhista, di Buddha rivive e vive l’intera dottrina. E’ come un andare fuori del mondo, fuori della realtà. E’ come rifugiarsi in qualcosa di superiore. Lo scrittore non odia il materialismo, semplicemente lo vuole ignorare, come non esistesse.  Il successo (soprattutto con “Siddharta”, “Narciso e Boccadoro”, “Il gioco delle perle di vetro”) viene da lui vissuto come il segno di un ravvedimento e di un consenso da parte della versione pura e sensibile dell’umanità. Non è un cadere nel sistema borghese e mercantile imperante. Hesse raccomanda la scelta dell’opzione spirituale. Nel suo libro più famoso, “Siddharta”, appunto, egli percorre ad occhi sbarrati l’esperienza del Buddha, ne evidenzia la discesa nell’intimo della questione vitale applicata all’esistenza. Lo scrittore tedesco è un esistenzialista nel senso che va verso il tentativo di comunicare con l’esistere. La vita ha senso se si muove con questo scopo. L’esistenza è il mondo, la vita è semplicemente l’uomo, ma può diventare mondo se si esce da se stessi. Per uscire da se stessi occorre una ricognizione attenta e profonda del proprio animo: se si vuole, esso entra in comunicazione con le cose e con i loro segreti sino a rivelare la grandezza del tutto e della logica che lo guida. Questa logica, nel caso di Buddha, può essere ridotta ai minimi termini attraverso l’apparente annullamento della propria personalità. L’annullamento buddhista è uno sciogliere il proprio animo nel flusso della realtà. Lo scioglimento è tuttavia attivo, in quanto esiste la consapevolezza del processo. Esistendo questa consapevolezza, il processo diventa ragionevole: c’è, insomma, il consenso e una certa compartecipazione al tutto. Dire che Hesse sia persuaso di tutto ciò probabilmente non è vero, ma sicuramente egli persegue il raggiungimento della bontà della tesi con tutta la sensibilità di cui è in possesso. La sua ricognizione spirituale non è sottomessa a pregiudizi. Il suo Buddha è un insieme di possibilità espressive aperte e chiuse su una ricchezza di speranze, in qualche modo legate al protagonismo, che ha molto di consolatorio (ma non in senso svenevole) e molto di ascetico, pur senza fanatismi di sorta. E’ la mancanza di fanatismo che attrae lo scrittore tedesco e che lo porta a ritenere la dottrina buddhista la più corretta per la personalità umana. Il suo intervento manca tuttavia di un’adesione totale alla spiritualità del Buddha intesa come risolutiva di ogni tribolazione dell’uomo. Forse è più risolutivo lo stoicismo che tuttavia Hesse rifiuta in quanto atteggiamento umano poco tenero nei confronti del concetto ideale dell’esistenza. Buddha coinvolge di più ed esige un impegno costruttivo, non tutto o anche solo parzialmente distruttivo come è nel caso degli stoici. La presa di posizione stoica è poi fatta di superbia perché pone l’uomo davanti ad ogni cosa, mentre Buddha lo mescola con l’insieme maggiore, immaginando, con intensità particolare, un’armonia generale e sostanziale. Da buon figlio di un ambiente protestante, Hesse indugia ad esprimere una propria, ferma, opinione: preferisce rifugiarsi in un certo esoterismo e lasciarsi prendere da stimoli e provocazioni di natura metafisica che vorrebbe però più comprensibili. Non è la ragione convenzionale a pretendere tutto questo, ma è la ragione del sentimento, alla fine determinata a farsi valere: c’è in gioco, del resto, il superamento del mondo vero, che è troppo limitato. Un gioco difficile che richiede un impegno insolito. Hesse ritiene di trovare questo impegno nella venerazione discreta, ma fortemente argomentata, di un Buddha al quale crede non certo come personaggio mitico, bensì come portatore di una regola di vita che va a braccetto con l’esistenza. E’ ancora qualcosa di esterno, intendiamoci, ma che può diventare interiore leggendo attentamente l’avventura del pensiero buddhista scritta da un Hesse particolarmente ispirato ed umile. Un Hesse al servizio totale della spiritualità, convinto dell’efficacia della stessa sino alla commozione (ad occhi asciutti) per questa eccezionale scoperta, penetrata nel suo animo sino in fondo. Un’ancora di salvezza per sé e per l’umanità intera. Per concludere posso dire che Hermann Hesse, romanziere, poeta e pittore,  nelle sue opere ha affrontato temi inerenti all’amicizia, al viaggio, all’amore, alla morte, alla psicoanalisi e al vagabondaggio. La sua opera è un ponte tra pietismo e buddismo, tra estremo Occidente ed estremo Oriente. Tutti i suoi romanzi fanno perno sulla sua vita e in ciascuno ci dice qualcosa di sé. La sua Stimmung (nel linguaggio della critica letteraria e dell’estetica significa disposizione psicologica, stato d’animo, atmosfera) -  per quel mix di tolleranza e pacifismo (idee e sentimenti veri, non di facciata e per i quali pagò qualche prezzo), intensa spiritualità e dilettantismo delle sensazioni -, incontrò il favore sia del severo e intenso Thomas Mann che dei "figli dei fiori" che fecero di Siddharta  il libro d'elezione di una generazione. CHIARA PASSARELLA


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IL LIBRO DEL MESE (Estate 2018):  Pensare l’Islam di Michel Onfray

Dopo i fatti di Charlie Hebdo, una nuova e più sanguinosa strage jihadista fa vacillare i valori fondamentali della Repubblica francese rischiando di innescare una deriva autoritaria in tutta l’Europa; questo mentre la coalizione contro l’ISIS si allarga pericolosamente facendo emergere complicità per troppo tempo ignorate e acuendo le tensioni tra gli Stati coinvolti nella crisi siriana.
Nel Corano si predica la pace o al contrario si inneggia alla guerra? Ha senso ritenere che l’Islam, in quanto tale, sia incompatibile con la cosiddetta civiltà occidentale? Ciò a cui stiamo assistendo non è forse il prodotto di un conflitto planetario scatenato più di un decennio fa in nome del profitto, un conflitto che ha armato la mano di coloro che oggi minacciano la nostra incolumità e che quasi ogni giorno seminano terrore e morte in tutto il mondo arabo? Michel Onfray, partigiano del libero pensiero che non ammette compromessi, cerca di rispondere a queste domande cruciali affidandosi alle armi della critica e all’analisi delle fonti, in un libro «vietato» in Francia, dove il dibattito pubblico si sta progressivamente omologando alla narrazione imposta dalle autorità e alle semplificazioni dei media. Per questo, il libro che qui presentiamo costituisce la prima edizione mondiale. Mantenere la lucidità, avere il coraggio di analizzare i fatti per quello che sono, senza infingimenti e ipocrisie, permette di tracciare una via di uscita da una catastrofe annunciata che nessuno sembra avere intenzione di scongiurare. Pensare l’Islam vuole contribuire al risveglio della razionalità in un mondo sempre più assediato dai demoni della follia, prima che sia troppo tardi.” (da La Stampa – sito Il Libraio)
 ROBERTO  RAPACCINI

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IL FILM DEL MESE (Estate 2018): L'Isola dei Cani

“Un film in stop motion in cui a non subire mai uno stop sono la fantasia e la creatività . Un film di Wes Anderson con Bryan Cranston, Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Bob Balaban, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, F. Murray Abraham, Kunichi Nomura, Harvey Keitel. Genere Animazione durata 101 minuti. Produzione USA 2018. Uscita nelle sale: martedì 1 maggio 2018 Un ragazzo parte alla ricerca disperata del suo amato cane, esiliato per via di un'influenza canina. Con l'aiuto nuovi compagni a quattro zampe, proverà a sovvertire le regole del sistema. Giancarlo Zappoli - www.mymovies.it Giappone, 2037. Il dodicenne Atari Kobayashi va alla ricerca del suo amato cane dopo che, per un decreto esecutivo a causa di un'influenza canina, tutti i cani di Megasaki City vengono mandati in esilio in una vasta discarica chiamata Trash Island. Atari parte da solo nel suo Junior-Turbo Prop e vola attraverso il fiume alla ricerca del suo cane da guardia, Spots. Lì, con l'aiuto di un branco di nuovi amici a quattro zampe, inizia un percorso finalizzato alla loro liberazione. Wes Anderson, film dopo film, sta affinando una caratteristica del tutto peculiare che lo colloca ormai, a buon diritto, tra i Maestri del cinema contemporaneo. È praticamente uno dei pochissimi registi, ma sicuramente quello con gli esiti più produttivi di senso, in grado di saturare le inquadrature con una miriade di elementi senza però perdersi in un barocchismo o in un compiacimento fini a se stessi. Salvo poi, nell'inquadratura successiva, svuotare lo schermo per affidarlo a un singolo elemento in un ampio spazio. Nel suo cinema la messa in scena conta infinitamente di più della storia che però comunque non si limita a fare da tappeto narrativo per le immagini. Come in questo caso, dove si racconta di non di un 'muro' ma di qualcosa di analogo: un'isola dove poter allontanare gli indesiderabili.Partendo da un pretesto reale (l'influenza canina) ma fingendo che non sia possibile alcun rimedio in proposito e che quindi l'unica soluzione per 'proteggersi' sia il respingimento. Il contestualizzare tutto ciò in ambito nipponico non significa voler evitare un attacco diretto alla politica del proprio Paese da parte di Anderson. Così come è disceso negli abissi marini con Steve Zissou o ha viaggiato nel Darjeeling con i fratelli Whitman per poi addentarsi nei corridoi e nelle stanze del Grand Budapest Hotel, ora vuole nuovamente sperimentare facendosi accompagnare dal piccolo Atari. In cosa consista l'esperimento è presto detto: attraversare la cultura iconica giapponese partendo dai b-movies con mostri ed eruzioni vulcaniche degli anni '60 per arrivare alla cultura pop ma avendo sempre come punto di riferimento dei Maestri come Ozu e, soprattutto, Akira Kurosawa. Dell'Imperatore prende a prestito l'atmosfera di film come ''L'angelo ubriaco'' o ''Cane randagio'' non dimenticando mai la lezione di umanità che essi offrivano, anche quando erano contestualizzati nelle situazioni più disagiate. Ne nasce un film in stop motion in cui a non subire mai uno stop sono la fantasia e la creatività.” (DA MY MOVIES)

Roberto Rapaccini

98 commenti:

sky ha detto...

Quel poco che ho conosciuto di Pasolini mi fa pensare ad un artista poco emulato, che rimane un esempio unico nel suo genere e nella sua ispirazione.

Robertace latini ha detto...

"Le Nevi del Kilimangiaro"
Cristina ha fatto una così bella recensione che ho già provato tutte le emozioni.E interessante è il concetto del salto generazionale da se stessi ai nipoti.
Roberto Sky

Roberto Latini ha detto...

Chiara su Roversi

Carino il gioco di parole della ribalta dove tutto viene ribaltato.
Mangiare lentamente, guardare con calma, camminare con tranquillità, contemplare cioè la natura, le cose,i movimenti, le persone. Sono sicuro che sia il caso.
Strano che lo dica io, metallaro, quando l'Heavy Metal è spesso incentrato sulla velocità (ma non è sempre così). Forse il metallo è futurista, ma io amo anche la tradizone e la campagna e guardare le volute di fumo dai camini e dalle sigarette.
Sky

Sky Robertace ha detto...

"SFIGURATA"
Ilperdono è difficile. Onore a questa donna che ora è una bandiera da sventolare per l'evoluzione di un mondo (non solo arabo).

Rob latini

ROBERTO R. ha detto...

BRANI DEL MESE: “LOVE ME DO” (lato A) / “P.S. I LOVE YOU” (lato B) dal primo 45 giri dei Beatles (5 Ottobre 1962)
Scusate il ritardo, questo sarebbe dovuto essere il brano di Ottobre, visto che la data d’uscita del loro storico 45 giri fu il 5 ottobre del ‘62. Rimediamo ora; per questa band rock, la più importante al mondo, vale la pena. I brani sono però due, poiché entrambi dello stesso vinile, quindi usciti insieme. Quest’anno sono 50 anni dall’esordio discografico dei Beatles. Ormai essi sono da ritenere un mito vero e proprio, all’altezza di Chopin; Rossini o Mozart. Quei quattro inglesi hanno dimostrato come la grande arte può anche avere la forma della semplicità. Ma poi siamo davvero sicuri che la loro musica sia sempre stata così semplice? Beh, i primi due brani mai stampati ufficialmente su vinile dalla band furono davvero pezzi facili ed essenziali, cioè ridotti all’osso. Ascoltandoli è pure disarmante percepirne l’aria sbarazzina.
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“LOVE ME DO” (“Dài amami”)
Il brano è soprattutto di Paul McCartney, e fu ideato alla fine degli anni ’50 (in quel tempo il gruppo si chiamava “Quarry Men”) ma la cantano sia lui che Lennon. Si tratta di una song frizzante, che inizia con una armonica tosta e diretta (suonata da Lennon) che gli dà la caratterizzazione principale. La base è un blues velocizzato. La voci fanno coro e riempiono una struttura altrimenti scarna. La ritmica è netta, spezzando con degli stop netti le parti; lo stop e la ripartenza rafforzano il dinamismo impresso dal ritmo piuttosto pulito della batteria, la cui tipologia era spesso data nel rock’n’roll dal battito delle mani.E Non si può parlare di brano scatenato, anche perché già negli anni ’50, brani come “Great balls of fire” di J.L.Lewis e “Johnny B. Goode” di C. Berry, erano più tirate; è però una nuova tipologia di vibrazione che prenderà presto le nuove generazioni.

ROBERTO R. ha detto...

Ecco il testo:
“Amami, dài amami,
sai che ti amo.
Sarò sempre sincero
Allora per piacere amami.
Qualcuno da amare, qualcuno di nuovo.
Qualcuno come te”.

Questo è quanto.
Rispetto ad esso disse Paul:
Arrivi al punto in cui pensi che non vale la pena di fare grande filosofia. “Love me do” era la nostra più grande canzone filosofica. La sua verità sta nell’essere incredibilmente semplice”.

“P.S. I LOVE YOU” (“P.S. Ti amo”)
Anch’essa è composta da Paul, e stavolta la canta solo lui. Il cantato ricorda molto il tono di Elvis Presley. Anche qui entra in gioco spesso la seconda voce che tende sempre ad arricchire l’arrangiamento, in questo modo divenendo indispensabile. Predilige l’atmosfera sdolcinata che possiede una linea melodica sinuosa con una sonorità piuttosto personale. Linea melodica che risulta comunque leggermente più complessa di quella di “Love me do”. Ma non è una soft song lenta, è invece una composizione che mantiene una piccola tensione, è infatti ben sostenuta da una ritmica tipica degli anni ’50 che l’accompagna incessantemente dall’inizio alla fine. L’attacco associa strumenti e voci in contemporanea andando direttamente al succo della composizione. Tutta basata sulla voce, a differenza di “Love me do” che invece dava importanza all’assolo di armonica a bocca. Globalmente ricorda certo spirito folk di stampo americano, quello che fondendosi col blues creò il rock’n’roll. Anche questo testo parla di amore: “Mentre scrivo questa lettera ti mando il mio amore”, ma sembra un amore a termine visto che sul finale viene detto : “Tornerò a casa da te amore, fin quando t’amerò”. Si tratta di due canzoni apparentemente ingenue sia dal punto di vista del sound che delle liriche, in realtà si tratta di forza estetica, genuina e pura. Si sente l’ispirazione che viene dal rock’n’roll del decennio precedente, ma la fluidità è già quella che appartiene agli iniziali anni ’60. Facendoci attenzione si noterà che il modo di cantare non appare scomposto e nervoso, anzi, tiene una compostezza con dentro un filo di malinconia pur nella spensieratezza. Considerando la storia della musica, l’ingenuità vera e propria dei due pezzi sta solo nel testo, molto povero. Musicalmente invece v’è contenuta una impronta innovativa, la quale pur nascosta nella semplicità, modernizza i contenuti seri del blues e del rock’n’roll. Soprattutto “Love me do” è il germe del rock più solido che arriverà di lì a poco (sarebbe facile trasformarla in metal song).

ROBERTO R. ha detto...

Fino alla fine non si sapeva quale sarebbe stata la scelta per il lato A. I brani furono registrati in tre giornate, di cui l’11 settembre fu l’ultima. La scelta riguardante “Love me do” fu quella della seconda sessione (4 settembre) che vedeva Ringo Starr alla batteria, poiché per le altre avevano utilizzato batteristi differenti. La EMI le pubblicò mono e non stereo. Mentre il 45 giri usciva, i Beatles, a mezzogiorno, erano impegnati in una esibizione a Liverpool al Cavern Club, ignari di quello che sarebbe accaduto. In realtà questo disco ebbe successo, ma moderato, mentre la baraonda sarebbe giunta di lì a un anno. Il 45 giri arrivò alla diciassettesima posizione della classifica inglese. Entrambi i brani poi troveranno posto nel primo album della band “Please please me” pubblicato il 22 marzo 1963. Michael Jackson comprò nel 1985 quasi tutti i diritti sulla produzione dei Beatles. Ma i due pezzi in questione rimasero sempre nelle mani di McCartney. La prima parte della loro carriera, vicina all’esuberanza adolescenziale, è assolutamente differente dalla seconda, di sapore psichedelico, sia dal punto di vista delle tematiche sia per le sonorità. Ma il livello non sempre alto delle liriche di inizio carriera non coincide col valore della musica che è spesso molto alto. Non bisogna confondere “alto livello” con “difficoltà tecnica” o “complessità”. Il colpo di genio dei Beatles dei primi tempi sta nell’essere originali e di colpire nel segno con accordi e melodie perfette a cui nulla si può aggiungere o togliere. L’essenzialità è il loro pregio, mai ridondanze o note inutili, mai forzature. L’idea è utilizzata quasi pura, con pochi orpelli. SKYROBERTACE LATINI

ROBERTO R. ha detto...

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LA POESIA DEL MESE: "IO TI AMO QUANDO PIANGI" DI NIZAR QABBANI
Io ti amo quando piangi
Io ti amo quando piangi
e amo il tuo viso annuvolato e triste.
La tristezza ci unisce e ci divide
senza che io sappia
senza che tu sappia.
Quelle lacrime che scorrono,
io le amo
e in loro amo l'autunno.
Alcune donne hanno dei bei visi
ma diventano più belli quando piangono.

Nizar Qabbani

Sono venuta a conoscenza del poeta Nizar Qabbani ascoltando la trasmissione di Umberto Broccoli “Con parole mie” su Radio Uno. Non lo conoscevo ed inavvertitamente avevo anche “presunto” che le informazioni su di lui fossero poche e reperibili con difficoltà. Stavo commettendo un errore: oltre a trovare molte poesie con relativi commenti, ho anche appreso che spesso le sue poesie sono state cantate, e sono cantate tuttora, dai più grandi esponenti della musica araba (Umm Kulthum, Mohammed al-Wahhab, ‘Abd al-Halim Hafez, Majda al-Rumi, Kazem al-Saher).
Dalla Treccani on line ho ricavato notizie relative alla sua vita che riporto integralmente: Qabbānī ‹ḳabbàanii›, Nizār. - Poeta siriano (Damasco 1923 – Londra 1998). Ritiratosi (1966) dalla carriera diplomatica, si trasferì a Beirut dove nel 1967 fondò una casa editrice (Manshurāt Nizār Qabbānī). La sua opera poetica, caratterizzata da un forte lirismo romantico in cui l'amore e la donna sono fra gli interpreti principali (Qālat lī᾿s-samrā' "Mi disse la bruna", 1944; Ḥabībatī "La mia amata", 1961; Ilā Bayrūt al-unthā ma῾a ḥubbī "Verso Beirut, la mia amata donna", 1977), trattò anche temi politici, soprattutto dopo la disfatta araba del 1967 (Shu῾arā' al-arḍ al-muḥtalla "Poeti dei territori occupati", 1968; Qaṣā'id mutawāḥḥisha "Poesie selvagge", 1970; al-A῾māl al-siyāsiyya "Opere politiche", 1974). Nel 1973 pubblicò il saggio autobiografico Qiṣṣatī ma῾a ash-shi῾r ("La mia storia con la poesia"), in cui Q. espose le sue teorie poetiche e il suo impegno sociale e politico. Tutte le sue opere sono state raccolte in al-A῾māl ash-shi῾riyya al-kāmila ("Opere poetiche complete", 2 voll., I, 1971 e II, 1980). Una parte delle sue poesie sono state tradotte in italiano (Poesie, 1976).

ROBERTO R. ha detto...

Tra le varie poesie, tutte belle e degne di essere lette, ho scelto “Io ti amo quando piangi” perché ho trovato in questi versi un richiamo alla natura autunnale di questo periodo dell’anno ed una trasfigurazione della fisicità della donna amata in un qualcosa di interiore ed importante. Il poeta siriano, col suo stile raffinato, è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura araba del XX secolo. Un rivoluzionario dell’amore, dell’uguaglianza tra uomo e donna in un mondo, come quello arabo, dove tutto questo era ed è difficile da accettare. Per Nizar la donna è angelo ma nasconde anche la sua essenza sensuale. Era solito dire: “La vita priva del calore femminile non sarebbe pensabile”. La donna che Nizar ama e desidera è una donna fiera e libera, dolce e appassionata, con ombre e luci in cui specchiarsi. Fu una tragedia a spingere Qabbani alla poesia: quando il futuro poeta e diplomatico aveva 15 anni, sua sorella Wisal, di dieci anni maggiore, si uccise per evitare un matrimonio che non voleva con un uomo che non amava. Ai suoi funerali Qabbani decise di combattere quell’ingiustizia sociale che era stata causa della morte della sorella. “L’amore nel mondo arabo è come un prigioniero e io voglio liberarlo. Voglio liberare l’anima araba, i suoi sensi e il suo corpo con la mia poesia” disse un giorno ad un intervistatore che gli chiedeva se fosse un rivoluzionario. Nelle sue prime raccolte Qabbani canta l'amore e nella maturità una crescente consapevolezza della complessità dei sentimenti tra uomo e donna. Con la disastrosa sconfitta dei Paesi arabi nel 1967, Qabbani dispiega tutto il suo disappunto contro i governi arabi, incapaci — a suo giudizio — di gestire la situazione palestinese. La storia di Nizâr Qabbâni con la nazione araba è una storia d'amore. Per il suo "amore" egli costruì un regno senza confini e senza popolo, solo strade fatte d'amore piene di rivoluzione, rinascita e libertà. "In ogni secolo io ci sarò, come se avessi migliaia di anni", egli diceva. La sua parola è rimasta fresca come fosse un albero di fichi, di mandorle e uva cercando sempre una terra che li raccogliesse e un cielo che li proteggesse dalla polvere della disperazione e della disgrazia. Sin dalle sue prime opere emerge un'esigenza profonda: desidera innanzitutto essere capito per cui si esprime in un linguaggio semplice e spontaneo, dove abbondano immagini nuove e vivaci. Forse la sua fortuna è racchiusa nelle parole del poeta Adonis: "Fin dall'inizio spiccò tra gli altri poeti arabi suoi contemporanei per la capacità di afferrare l'attimo presente e catturare le afflizioni e gli impegni schiaccianti della gente. Per primo escogitò una tecnica linguistica particolare che abbracciava le parole della vita quotidiana con la loro diversità e ricchezza, spargendovi sopra un soffio poetico. Creò, così, un vocabolario che riconciliava l'arabo classico con il dialetto, l'antico e il moderno, l'oralità con la scrittura." http://it.wikipedia.org

ROBERTO R. ha detto...

" http://it.wikipedia.org/wiki/Adonis
Infine vi propongo altre poesie di Qabbani:
Non rassomiglio agli altri tuoi amanti, mia signora
Se un altro ti donasse una nuvola
Io ti darei la pioggia
Se ti desse un lume
Io ti donerei la luna
Se ti donasse un ramo germogliato
Io tutti gli alberi
E se un altro di donasse una nave
Io ti darei l’intero viaggio
***********************************
O Signore, il mio cuore non mi basta più,
quella che io amo è grande quanto il mondo:
mettimene nel petto un altro
che sia grande quanto il mondo.
************************************
Continui a chiedermi la data della mia nascita
prendi nota dunque
ciò che tu non sai,
la data del tuo amore:
quella è per me la data della mia nascita.
*******************************************
Io non ho detto loro di te
ma essi videro che ti lavavi nelle mie pupille
io non ho parlato loro di te
ma essi ti hanno letto nel mio inchiostro e nei miei fogli
L’amore ha un profumo
non possono non profumare i campi di pesco.
********************************************
La cosa più bella del nostro amore è che esso
non ha razionalità né logica
La cosa più bella del nostro amore è che esso
cammina sull’acqua e non affonda.
*************************************************
Quando amo
sento di essere il re del tempo
possiedo la terra e tutto ciò che essa contiene
e cavalco nel sole sul mio cavallo.
Quando amo
mi trasformo in fluida luce
che occhio non vede
e i versi nei miei quaderni
si traformano in campi di mimosa e papavero.
Quando amo
acqua zampilla dalle mie mani
erba cresce sulla mia lingua
quando amo
sono tempo fuori dal tempo.
Quando amo una donna
tutti gli alberi
corrono scalzi verso di me”,
****************************************
Se il demone fosse uscito dalla lampada
e mi avese detto: Eccomi,
hai un minuto solo,
scegli tutto ciò che vuoi
di granati e di smeraldi,
io avrei scelto i tuoi occhi
senza esitazione.

CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE: "2011" di Manuela Borraccino
Per chi segue da un punto di vista geopolitico le vicende del mondo arabo, ‘2011’ è un libro di fondamentale importanza. Vengono esaminate con rigoroso spirito sistematico e scientifico gli eventi avvenuti negli Stati arabi nel 2011. Un anno che passerò alla storia come è avvenuto per il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino. Vi è un’analogia fra i due eventi: infatti per chi è cresciuto nel contesto politico della guerra fredda la contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica. l’Islam infatti non è soltanto una religione, ma rappresenta una realtà geopolitica. Il libro presuppone questa consapevolezza. Il libro è’ diviso in capitoli dedicati ai singoli Stati che iniziano con schede che oggettivamente riassumono le situazioni nazionali. Seguono poi testimonianze di protagonisti che danno un’immagine concreta e ricca di riferimenti culturali e sociali di ciò che sta avvenendo. Egitto, Siria e Palestina sono i Paesi analizzati più da vicino. Un’attenzione particolare è riservata alle comunità cristiane che vivono in una condizione di stretta minoranza nel contesto islamico. L’autrice, Manuela Borraccino, ha un piacevole stile giornalistico, chiaro ed essenziale, e proietta il lettore in una dimensione concreta degli eventi storici. La prefazione è del gesuita Samir Khalil. Manuela Borraccino è una giornalista esperta del mondo arabo. Ha seguito il Vaticano e il Medio Oriente per l’agenzia Ansa (1997-2001), per la Adnkronos (2001-2004) e per il service televisivo internazionale ROMEreports (2004-2009). Ha scritto reportage da Israele e dai territori palestinesi per testate italiane e straniere.

ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE: "2011" di Manuela Borraccino
Per chi segue da un punto di vista geopolitico le vicende del mondo arabo, ‘2011’ è un libro di fondamentale importanza. Vengono esaminate con rigoroso spirito sistematico e scientifico gli eventi avvenuti negli Stati arabi nel 2011. Un anno che passerò alla storia come è avvenuto per il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino. Vi è un’analogia fra i due eventi: infatti per chi è cresciuto nel contesto politico della guerra fredda la contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica. l’Islam infatti non è soltanto una religione, ma rappresenta una realtà geopolitica. Il libro presuppone questa consapevolezza. Il libro è’ diviso in capitoli dedicati ai singoli Stati che iniziano con schede che oggettivamente riassumono le situazioni nazionali. Seguono poi testimonianze di protagonisti che danno un’immagine concreta e ricca di riferimenti culturali e sociali di ciò che sta avvenendo. Egitto, Siria e Palestina sono i Paesi analizzati più da vicino. Un’attenzione particolare è riservata alle comunità cristiane che vivono in una condizione di stretta minoranza nel contesto islamico. L’autrice, Manuela Borraccino, ha un piacevole stile giornalistico, chiaro ed essenziale, e proietta il lettore in una dimensione concreta degli eventi storici. La prefazione è del gesuita Samir Khalil. Manuela Borraccino è una giornalista esperta del mondo arabo. Ha seguito il Vaticano e il Medio Oriente per l’agenzia Ansa (1997-2001), per la Adnkronos (2001-2004) e per il service televisivo internazionale ROMEreports (2004-2009). Ha scritto reportage da Israele e dai territori palestinesi per testate italiane e straniere.

ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE: "Lo Zoo di Venere" (1985) Regia Peter Greenaway
Accenno di trama
Uno strano incidente coinvolge un cigno fuggito da uno zoo, una Ford Mercury bianca e le tre donne che la occupano. Due di esse muoiono, l’unica a sopravvivere è la guidatrice, Alba Bewick. Oliver e Oswald Deuce, due etologi che lavorano nello zoo, mariti delle due vittime, sopraffatti dal dolore, cominciano ossessivamente a studiare le origini della vita e il fenomeno della putrefazione.
Il cinema è un mezzo di espressione troppo ricco per lasciarlo ai narratori di storie.

Questa frase di Peter Greenaway, contenuta nel pressbook di ZOO, non esprime soltanto un aspetto rilevante della sua poetica, ma costituisce anche la centrale chiave interpretativa di questa pellicola: Greenaway non voleva solo sostenere le ragioni di un artista che intende usare tutte le potenzialità di un ambito espressivo, quale il cinema che non nasce per narrare. La trama deve essere il mezzo attraverso il quale il regista arriva a rappresentare le sue idee, a tradurle in immagini, non il contrario: dunque in ZOO le immagini sono il cardine del film, non si riducono mai a mere ancelle della storia; è piuttosto la narrazione a farsi mezzo. In altre parole: le idee dalle quali il lavoro cinematografico parte si realizzano in immagini, non in storie; tali idee/immagini sostanziano il film e la fabula ha il solo compito di giustificarle narrativamente: essa è dunque uno strumento posticcio, che interviene in seconda battuta, elemento compromissorio (perché necessario alla realizzazione di quello che rimane un prodotto da vendere) per arrivare all’autentico obiettivo: dare materia cinematografica a quelle idee, creare le immagini che le rappresentino. Alla luce di questa considerazione Lo Zoo di Venere si rivela non solo il più puro e il più integralista tra i film “commerciali” dell’autore (in nessun altro caso Greenaway perverrà a un risultato così astratto dalle logiche narrative e meravigliosamente succube delle istanze visive – e in effetti gli esiti del botteghino furono disastrosi), ma anche il suo grande manifesto teorico. Non è un caso che esso sia ancora oggi il suo film prediletto [1]

ROBERTO R. ha detto...

. ZOO dunque parte da due ossessioni del regista: quella di rappresentare la sua idea di gemellarità e quella dello zoo come possibile arca di Noè, enciclopedia tridimensionale e viva del mondo animale (concetto evocato dalla classificazione alfabetica fatta nel corso del film dalla piccola Beta). La trama ossequia questa esigenza e prevede, dunque, due gemelli e un giardino zoologico. L’idea, a questo punto, è di fare di questi professionisti dell’osservazione del mondo animale, che sono pronti a registrare reazioni e comportamenti delle varie specie custodite nello zoo, degli esemplari umani da osservare a loro volta: come reagiscono due uomini di fronte a un evento traumatico? Si immagini dunque che i due gemelli perdano entrambi le mogli in un incidente automobilistico e che, distrutti dal dolore, cerchino di utilizzare le loro conoscenze per studiare l’evento che ha segnato in maniera così violenta le loro vite, onde comprenderlo e, in qualche modo, giustificarlo. Esaminando il cammino degli eventi che, da quel primo barlume di vita, nella notte dei tempi, conduce a un incidente stradale i cui elementi fondamentali sono stranamente pieni di rimandi reciproci e coincidenze: esso avviene vicino allo zoo, nel viale del Cigno proprio a causa di un cigno; in esso l’unica superstite, di bianco vestita e con vistose penne, si chiama Alba (bianca) e fa Bewick di cognome (i cigni di Bewick – o cigni minori – sono una specie del volatile: ma Bewick è anche il cognome dell’incisore inglese che nel Settecento si specializzò in silografie di animali) e vi perdono la vita due donne, mogli incinte di due etologi; ciliegina sulla torta la macchina è una Ford Mercury (il mercurio si usava anticamente per procurare aborti) bianca; questa interazione di elementi richiama una suggestione letteraria che proviene da uno dei romanzi che Greenaway ama citare di più, Il ponte di San Luis Rey di Thorton Wilder. Il film oscilla tra riferimenti vari, dall’evoluzionismo alla Genesi, passando per la mitologia: ecco allora un altro elemento che va ad arricchire l’intrico, costituendo da un lato un ulteriore livello sovrastrutturale e dall’altro collegando magicamente tutti gli argomenti in gioco: nella generale riflessione che coinvolge Vita e Morte, Religione e Scienza, Caos e Destino, si dota lo zoo di un personale che è l’equivalente del Monte Olimpo. Alba Bewick è Giunone, la dea della Terra, associata a fertilità e sterilità (nella sua camera ci sono dei paraventi con riproduzioni di pavoni, simboli della dea), ma in essa ci sono anche riferimenti a Leda[2]

ROBERTO R. ha detto...

Van Hoyten, il direttore dello zoo, incarna Plutone il dio dell’inferno che odia gli animali in bianco e nero e porta sul bavero una spilletta con l’effigie del disneyano Pluto. Joshua Plate è Mercurio, custode dello zoo è anche il messaggero di questo Olimpo rivisitato, riferisce agli altri quanto affermato dai gemelli e viceversa; la sua identità è svelata dal paio di ali riprodotte sul cappello. Una Mercury, ricordiamolo ancora, è anche l’auto al centro dell’incidente iniziale. Quanto agli altri: Van Mergeeren è Apollo, un perverso dio della guarigione; la sua assistente Caterina Bolnes (ha preso, su richiesta del chirurgo, lo stesso nome della moglie di Vermeer), sterile, è la virginea Diana; Pipe è Nettuno, non a caso guardiano dei pesci; i gemelli protagonisti sono Castore e Polluce ovviamente; Giove è Fallast, il proprietario dello zoo (reca un fermacravatta a forma di saetta), ma anche il cigno che segna la tragica sorte delle mogli dei protagonisti e che mette in moto tutto l’intreccio. Come per tutti i film dell’autore, anche ZOO risulta avere un numero ricorrente che lo segna : il numero centrale è 2. Due: due sono i gemelli (che di cognome fanno Deuce - parità, due -), due come riferimento alla specularità del corpo umano (due occhi, due braccia, due gambe etc) e alla simmetria a cui rimandano, maniacalmente, le stesse inquadrature del film, costruite, anti realisticamente, quasi sempre con un centro e due parti pressoché speculari, due sono le morti dell’incipit e due saranno le morti che segneranno la fine del film; l’unica nascita è doppia anch’essa. 2 è anche il numero che appare nel titolo originale del film (A Zed and Two Noughts - Una Z e due zeri) che, come sempre in Greenaway, è molto importante e la cui complessità la versione italiana rinuncia completamente a rendere. Questo film segna l’incontro tra il regista e Sacha Vierny direttore della fotografia il cui lavoro ha del miracoloso in quanto Greenaway in questo film, fatto in un’epoca in cui la manipolazione digitale dell’immagine era ancora agli albori, in una sorta di grande sfida al maestro della luce Vermeer, centrale riferimento pittorico di ZOO, intende utilizzare tutte le possibili modalità di illuminazione: la luce del tramonto, quella notturna, quella diurna, la sola luce della luna, addirittura dell'arcobaleno, oltre ad applicare tutto il possibile dizionario dell’illuminazione artificiale. Caravaggio e Vermeer del resto sono due pittori che hanno modellato il loro mondo pittorico con la luce: Greenaway, rifacendosi a Godard, li considera dei protocineasti: Vermeer utilizzò per primo una sorta di camera oscura, condusse dei veri e propri esperimenti ottici e, come Caravaggio, con le sue opere catturava “cinematograficamente” un istante. E a proposito di Vermeer, il citazionismo pittorico, già presente nell’altro film di Greenaway The draughtsman’s contract (la tradizione paesaggistica inglese), diventa esplicito in ZOO, addirittura parte integrante della stessa narrazione. In realtà non c’è film di Greenaway che non contenga riferimenti diretti o indiretti a singoli artisti o a specifiche opere: Mantegna, Velazsquez, Bruegel in Giochi nell’acqua, Piranesi ne Il ventre dell’architetto, Tintoretto, Caravaggio in The baby of Macon, solo per citarne alcuni. Addirittura il riferimento a Franz Hals ne Il cuoco (Banchetto degli ufficiali del corpo degli arcieri di San Giorgio), come per Vermeer in ZOO, non costituisce solo un elemento evocato o sottinteso.

ROBERTO R. ha detto...


Moltissimo ci sarebbe da dire sul sodalizio anche tra Michael Nyman (che, ricordiamolo, nasce come teorico e critico musicale – fu lui a coniare il termine “minimalismo”-) e Greenaway; il rapporto immagine-musica ha conosciuto, con questo binomio, una delle più esemplari e creative stagioni. Relativamente a ZOO, come di consueto, la composizione delle musiche ha preceduto il girato e si è fondata sulla sola sceneggiatura; Greenaway preferisce girare già conoscendo le composizioni e concependo le immagini sulla base di esse [3]. Film visionario e complesso che ha significato per me, poco più che adolescente nell’anno di uscita nelle sale, l’inizio di un grande amore per tutto ciò che è “ immagine”.

CRISTINA GIACOMETTI

[1] PG - Sia per le sue enormi ambizioni che per i suoi limiti, questo è l’unico mio film che, se me ne fosse data l’opportunità, vorrei rifare. Spesso un genitore riserva il suo affetto più grande proprio al più difficile e problematico dei suoi figli.
[2] Giove, invaghitosi di Leda, per possederla si trasformò in cigno: la donna partorì due uova giganti, da cui uscirono due coppie di gemelli (Castore e Polluce; Clitennestra ed Elena). La voce alla radio che sentiamo all’inizio, mentre scorrono le immagini del luogo dell’incidente, parla di Leda e del cigno, che recava delle uova nell’apparato genitale.
Castor and Polydeuces: Polydeuces contiene la parola deuce, il cognome dei due gemelli.
[3] Michael Nyman - La musica funziona meglio laddove essa è designata a lavorare con un’immagine particolare, in ZOO, ad esempio, durante le sequenze del laboratorio, quando Peter descrive questa serie di flash in maniera assolutamente precisa, in tempi differenti, come una sorta di procedimento musicale. Decisi di usare una musica molto molto regolare, molto lenta, nel senso che doveva rappresentare una certa morbidezza, una sorta di requiem. E’ la sequenza del film in cui la musica s’impone col suo proprio tempo: in essa la camera si muove attraverso tutte le gabbie in cui gli animali sono fotografati. Nel corso di due, tre minuti abbiamo una combinazione deliberata di suono e immagine; suono che io intendevo per una sequenza particolare e per la quale Peter ha permesso alla musica di funzionare secondo la sua propria logica. Trovo che sia qui che la combinazione risulti più potente.

ROBERTO R. ha detto...

TESTI CITATI:
- Introduzione al film – press book di ZOO– Peter Greenaway
- Gli Spietati- Luca Pacilio
- A Zed and Two Noughts (sceneggiatura del film)– Peter Greenaway
- Commento al film dell’autore - contenuto nel DVD

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Giugno 2013): “LACRIME” dal 45 giri di Little Tony del 1968

E’ il brano lato B del disco. Mentre sul lato A c’era “Stasera mi pento”. Nel ’68 il rock internazionale si era già molto indurito (D.Purple; Steppenwolf; Cream; J.Hendrix) mentre in Italia Little Tony è ormai un morbido rocker. Egli non canta rock puro, è infatti un cantante prettamente di musica leggera, che però sa immettere una certa verve rock’n’roll nel proprio sound, e inoltre ama cantare in inglese i brani famosi del passato che vengono dal rock americano degli anni ’50. Ma alla fine dei sessanta ciò appare già quasi un revival. Il vero nome di Little Tony è Antonio Ciacci, nato nel 1941 a Tivoli da genitori di S.Marino e mai diventato cittadino italiano. Già presenti musicisti nella sua famiglia; la sua carriera inizia nel 1958 incidendo proprio i pezzi rock’n’roll più famosi e anche più duri (“Lucille”; “Shake rattle and roll”) suonando coi suoi due fratelli. Nel 1959 una composizione (“Too good”) gli viene scritta proprio da uno degli autori di Elvis Presley, è un brano molto calmo e certamente poco originale, ma sottolinea la propensione di Tony a certa musica d’oltreoceano. Per anni, tra dischi e film sforna davvero parecchia produzione. Ho deciso di inserire un suo brano tra quelli del mese di questo blog poiché il 27 maggio di quest’anno è morto per un tumore. Dobbiamo riconoscergli di essere stato tra i primi a fare entrare il rock in Italia. Io personalmente lo sento parte della mia storia musicale poiché già a 6 anni (1970) salivo sui tavoli di casa per scatenarmi coi suoi 45 giri infilati nel mangiadischi. Fu il primo mio approccio al rock, ero un minimetallaro. “LACRIME” di C.Claroni e A.Ciacci. Brano alla cui scrittura Little Tony ha partecipato. Si percepisce il ritmo rock’n’roll-blues che sottende alla linea vocale stile Elvis. Trattasi di quel r’n’r addomesticato di fine anni ’50 e non di quello irriverente appena precedente. Per capirci non c’è la ribellione di Little Richard (“Tutti Frutti”) o di Jerry Lee Lewis (“Great balls of fire”), ma l’atteggiamento più suadente accostabile a quello di Paul Anka (vedi la canzone “Diana”) o del successivo Presley. Possiamo metterlo fra i brani soft del genere musicale rock’n’roll dove comunque entravano sia il country che le sonorità sudamericane, e pure il folk in generale. “Lacrime” in effetti porta il folk, infatti la chitarra acustica ricorda molto il genere di canzone italiana classica (per esempio alla Domenico Modugno), ma la ritmica e l’anima complessiva tende in maniera preponderante all’anima musicale degli anni ’50 americani. In realtà i coretti sanno molto di beat anni ’60, il decennio sessanta sta terminando ma è ancora fortemente vivo il ricordo di quello precedente; del resto la tendenza di Little Tony, pur portata al rock’n’roll, è strettamente figlia del proprio periodo di attività e del sound che sta mutando. Sixties che si sentono anche nelle tastiere iniziali e poi nei fiati nel finale, attualizzandone il carattere. I fiati sono comunque un forte sostegno al tenore del brano, donando corposità e forza soprattutto alla parte del ritornello. La linea melodica è ben costruita con una tensione che s’impenna nella parola del titolo; musicalmente parlando l’interpretazione possiede un minimo di pathos che riflette una certa energia e non mieloso romanticismo, nonostante le parole esprimano le pene dell’amore con immagini da luogo comune: “Lacrime sul mio viso ora scendono; come un albero perde le foglie più verdi anch’io perdo te”, in cui se vogliamo trovare una particolarità l’albero che perde le foglie di solito nell’immaginario collettivo le perde secche. Il testo insomma è la solita canzone sentimentale, di sofferenza per essere stati lasciati. Un brano lineare ma che cura l’arrangiamento con una certa attenzione. E anche se la voce non risulta di alto livello tecnico è comunque in grado di portare un feeling suggestivo.







SKY ROBERTACE LATINI

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Giugno 2013): Omero gatto cieco, di Gawen Cooper



Omero è un gatto nero nato cieco che vive con la scrittrice Gwen Cooper, autrice del libro, che ha già altri due gatti. Pur essendo cieco e destinato - secondo il sentimento comune - ad una vita disgraziata, Gween decide di adottarlo, sottraendolo così alla probabile soppressione. Omero, essendo cieco dalla nascita, non sa cosa è la cecità. La sua condizione per lui è una normalità felice. Nasce un grande amore fra il gatto e la scrittrice. Omero si rivela un gatto dotato di una straordinaria vitalità, curiosità e dolcezza; è una forza della natura e sa conquistare con il suo entusiasmo per la vita tutti gli amici umani della scrittrice. Omero scala senza complessi librerie alte due metri e mobili, e, con dei salti acrobatici, riesce anche ad acchiappare al volo le mosche. Nei giorni immediatamente successivi all'11 settembre 2001 sopravvive intrappolato nell’appartamento della scrittrice prossimo alle Torri Gemelle, e quindi, come tutti gli stabili della zona, inibito all'accesso dei proprietari (o affittuari) dei locali. E' soprattutto grazie alla sua incrollabile fedeltà, all'infinita capacità di amare e all'inesauribile gioia di vivere che Omero trasforma giorno dopo giorno l'esistenza di Gwen, insegnandole che cosa significhi affrontare gli ostacoli con ottimismo e aprire il proprio cuore agli altri. È un libro molto piacevole per chi ama gli animali, i gatti in particolare (come me, Cristina, Valentina, e Marco che al momento ne abbiamo sei). VALENTINA E ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Giugno 2013): Il modo tuo di amare di Pedro Salinas







[XXXIX] Il modo tuo d’amare
Il modo tuo d’amare
è lasciare che io t’ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole e abbracci
mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze
quella solitudine immensa
d’amarti solo io.

[XXXIX] La forma de querer tú
La forma de querer tú
es dejarme que te quiera.
El sí con que te me rindes
es el silencio. Tus besos
son ofrecerme los labios
para que los bese yo.
Jamás palabras, abrazos,
me dirán que tú existías,
que me quisiste: Jamás.
Me lo dicen hojas blancas,
mapas, augurios, teléfonos;
tú, no.
Y estoy abrazado a ti
sin preguntarte, de miedo
a que no sea verdad
que tú vives y me quieres.
Y estoy abrazado a ti
sin mirar y sin tocarte.
No vaya a ser que descubra
con preguntas, con caricias,
esa soledad inmensa
de quererte sólo yo.


Pedro Salinas da “La voce a te dovuta” - 1939

Pubblicata nel 1933, ottenendo un immediato grande consenso di pubblico e di critica, questa raccolta può essere collocata in un momento centrale, di piena maturità, della poetica di Pedro Salinas. Attraverso i suoi settanta componimenti scorre un intero poema d'amore compatto nel suo tessuto tematico e sentimentale, intervallato di silenzi che sono solo pause di respiro.
Un canzoniere, dunque, ove l'amore si esplica in una continuità di ricerca quasi sperimentale, in una ripresa continua di motivi combinati fra loro, in un linguaggio sottilmente rinnovato, aperto alla trasformazione fantastica. Un lavoro capillare, nascosto, ma di grande suggestione per chi sa percepire le segrete sonorità della poesia. "La voce a te dovuta" è dunque un poema lirico che si compone di diverse sequenze dove il senso dei rapporti non segue la logica e nemmeno la successione degli avvenimenti ma si snoda comunque in un intendimento unitario. Può essere considerato un poema della memoria , composto da lunghi monologhi e/o dialoghi con la persona amata, apparentemente divisi da una sorta di silenzio tra un componimento e l'altro ma che in realtà sono ripresi o da un tema o da una analogia o da un’associazione verbale. Il risultato veramente eccellente, che fa di questa raccolta un capolavoro, è che i componimenti sono concatenati tra di loro pur essendo indipendenti. Il poeta Jorge Guillén, dopo l’uscita di questo poema, tenne una importante conferenza proprio su questi aspetti peculiari.

ROBERTO R. ha detto...

http://it.wikipedia.org/wiki/Jorge_Guill%C3%A9n

Voglio soffermarmi un poco sulla struttura interna di ciascuna poesia che si presenta in forma organica e finita con forme ricorrenti che contribuiscono all'unitarietà del poema. Salinas all’inizio offre al lettore un'esposizione sintetica del tema, poi una esplicitazione nell'avvio e, infine, una chiusura che a volte riconferma quanto detto e a volte ne capovolge, con un paradosso, il significato, venendo così a formare una ripresa, comunque, di forma circolare. E’ la circolarità della lirica che riesce a trasmettere emozioni e sensazioni in una continua dichiarazione d'amore senza fine né pace, una voce per una donna sola, "la voce a te dovuta”. Salinas si dichiara alla donna amata senza tregua, la sua poesia non si ferma mai, non ha sosta come il cuore stesso del poeta non smette un attimo di amare. Salinas confessa il suo amore come una croce e delizia, una continua contraddizione di dolore e gioia: ci dice che solo l’amore più vero sa essere così, nella difficoltà stessa di esprimersi, nella voglia costante di cantarlo ed al tempo stesso nella paura di inseguirlo e improvvisamente anche nel desiderio di mollare tutto, tutta la propria vita, tutte le proprie certezze solo per raggiungerlo. CHIARA PASSARELLA

http://it.wikipedia.org/wiki/Pedro_Salinas

ROBERTO R. ha detto...


IL FILM DEL MESE (Giugno 2013): Titolo:



PI GRECO. IL TEOREMA DEL DELIRIO

Regia: Darren Aronofsky – 1998



Trama: Max Cohen è un genio della matematica che sta cercando di svelare la legge numerica in grado di predire gli sviluppi della Borsa. Ai suoi studi sono interessati anche una vorace società di Wall Street e una setta di ebrei ortodossi che lo braccano senza soste. Il numero magico che cerca è quello perso durante la distruzione romana di Gerusalemme e che racchiudeva in sé l'essenza di Dio, il suo vero nome. Ma per Max e il suo computer, la determinazione di quel numero comporta un nuovo livello di coscienza.



Pi greco è il debutto cinematografico di Darren Aronofsky ed è un film totalmente diverso dalla sua ultima opera premiata al Festival di Venezia, The Wrestler. Con un budget ridottissimo (60.000 dollari in tutto) ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti tra cui il premio per la miglior regia al Sundance Festival del 1998. Girato in bianco e nero con una 16 mm è un film sperimentale, claustrofobico, poco attento alla coerenza narrativa ma maniacale nel riprodurre una ambientazione angosciante. A tratti ricorda il cinema di Cronenberg – nella lacerazione della carne, nei liquidi organici che invadono i microchip di Euclide, computer sull'orlo di una crisi di nervi - a tratti il cinema lynchiano – nella descrizione sincopata delle fughe psicogene, nel bianco e nero alla Eraserhead –, con molti debiti al cinema di Tsukamoto (Tetsuo), ai superuomini nietzchiani che possono salvare il mondo solo immolandosi (Matrix). La filosofia di Max Cohen, interpretato magistralmente da Sean Gullette, può essere riassunta in tre punti. "Uno: la natura parla attraverso la matematica; due: tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri; tre: tracciando il grafico di qualunque sistema numerico ne consegue ovunque uno schema. In natura esistono degli schemi. Ecco le prove: la ciclicità delle epidemie e delle macchie solari, le piene e le secche del Nilo…". Il suo desiderio di penetrare i segreti del cosmo risale all'infanzia, quando Max guardò la luce solare per tanto tempo rischiando di rimanere cieco, dal quale si difende barricandosi a tripla mandata in casa. La vicina di colore che lo corteggia, la padrona di casa che lo detesta, la bambina che lo sfida in complicati calcoli a mente, il suo maestro di matematica che lo avverte che la strada della follia è lastricata da tante buone intenzioni, tutte queste figure vanno via via perdendo di importanza e spessore di fronte alla sua unica vera ossessione: entrare in contatto con la mente di Dio.

ROBERTO R. ha detto...

Più approfondisce le sue conoscenze e i suoi calcoli matematici, più Max sembra allontanarsi progressivamente dal mondo, ossessionato da diagrammi e sequenze. Con il proliferare di ipotesi e postulati, di tesi e dimostrazioni per assurdo, il fisico di Max viene gravemente minato: gli attacchi di cefalea sono sempre più violenti e aggravati dalla perdita di sangue dal naso, il ricorso alle droghe e agli psicofarmaci è una specie di compromesso tra il progressivo allontanamento della realtà e la necessità di sopravvivere a se stessi, alla propria diversità. Gli amanti di matematica troveranno grossolano il modo in cui il regista mescola Fibonacci e Qabbhala, il gioco cinese Go e Wall Street, principi della meccanica dei fluidi, geometria euclidea, spirali.,
sezione aurea, Lenardo Da Vinci , serie numeriche ( 216) dietro le quali si nasconde il nome di Dio ma il film tende proprio a sottolineare la impossibilità a raggiungere la verità: per quanto lo scienziato si trovi a "sette passi da Dio", questa vicinanza senza piena conoscenza è comunque fonte di pazzia e disillusione. Gli incontri di Max con il suo mentore Sol dimostrano in maniera lampante due diverse posizioni della scienza di fronte alla realtà del mondo visibile, una specie di coincidentia oppositorum: da un lato lo scienziato che prova a rifiutare il caos per trovare una legge che riporti l'ordine e l'equilibrio dentro le cose, dall'altra la serena accettazione che la matematica non può governare il caos, e che bisogna non solo calcolare la vita, ma anche viverla. Aronofsky, lavora moltissimo con la fotografia sgranata e in bianco e nero espressionistico, con i contrasti tra la luce divina e le ombre umane, con la macchina a mano spesso scossa da convulsioni di vertiginose soggettive, o ruotando in maniera peripatetica, con il suono scioccante (quello delle tre sicure alla porta di casa), con la musica allucinata dei Massive Attack (Angel) e di Clint Mansell (che compare in un piccolo cameo, è il fotografo che ruba una immagine al protagonista). L'effetto ipercinetico soggettivo viene ottenuto con l'utilizzo della snorri-cam, una macchina da presa legata al corpo dell'attore che lo congela al centro dell'inquadratura. La percezione non è quella normale dell'attore che si muove nello spazio, ma dello spazio che si muove attorno a lui.La parte finale del film è risolta da Aronofsky nell'unico modo possibile: come il computer Euclide va in tilt nel momento di dover accogliere una serie complessa di dati, così la mente di Max non può accogliere il concetto di infinito spaziale e temporale, il pensiero stesso di Dio. Max non è Neo di Matrix, non è il prescelto, non è il superuomo nietzschiano. Deve forare il suo cranio e lasciar uscire tutto il materiale sensibile e intellegibile che vi ha compresso. Deve decomprimere il suo encefalo, farlo ritornare alla sua dimensione originale, lasciando gran parte dei misteri irrisolti. E riscoprire la gioia di guardare la vita con il filtro dell'imperfezione umana, come la luce del sole filtrata dalle foglie, con accanto l'ingenuità e la purezza di una bambina che fa domande alle quali non vogliamo e non sappiamo rispondere. CRISTINA GIACOMETTI

Sky Robertace ha detto...

Questa frase la sento molto vera: "l’inflazione delle opinioni che ne è conseguita ha prodotto in molti contesti un’omologazione del pensiero"
con la sola tv si creavano miti comuni e pensieri comuni, ma anche discussione approfondita su pochi punti che tutti erano costretti a seguire, volente o no. Ora con internet ognuno si fa il proprio programma ma la discussione può risultare futile, spezzettata l'informazione com'è.
Rispett alla musica di Benson che sto sentendo: davvero bella
Roberto Latini

ROBERTO R. ha detto...

Ciao, Roby, grazie del commento!
Lo scopo del libro è proprio questo, ovvero come con i nuovi meccanismi di internet si forma l'opinione pubblica

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Novembre 2013): “KEEP YOURSELF ALIVE” (1973) dal primo album dei Queen





I Queen sono una formazione di musicisti che ha travalicato i generi musicali, diventando una icona pop-rock universale. Tutti amano questa band senza magari conoscerne tutta la discografia. Il vero successo mondiale arrivò negli anni ‘80, ma era già internazionale all’interno del genere musicale d’esordio: l’Hard Rock. Si, perchè i Queen nascono come gruppo duro, nella scia di Led Zeppelin e Uriah Heep. Solo successivamente si inserirono nella dance e nel pop, conservando però una netta impronta rock. Nonostante le molteplici capacità tecniche e di personalità compositiva generale, la band ha colpito l’immaginario collettivo soprattutto grazie alla magnifica voce del compianto Freddy Mercury, capace di finezze ed interpretazione che forse nessun’altro cantante moderno, dal jazz in poi, ha saputo esprimere. Quest’anno, il primo album dei Queen compie 40 anni. Il brano: “Keep yourself alive”. Una chitarra ritmica con flanger inizia l’avventura discografica del famosissimo quartetto: è la prima traccia del primo disco. Si tratta di una specie di intro di circa 35 minuti; esso consiste in un crescendo che inspessisce la trama sonora aggiungendo uno strumento dopo l’altro, nella forma stilistica che già era stata realizzata dai Beatles in “Day Tripper”e soprattutto dai Deep Purple in “Smoke on the war”. Più che di un intro parlerei di un inizio canzone che pone il riff come carattere principale che dà l’impronta alla canzone, cosa tanto comune nel metal. Qui infatti la chitarra dell’intro è sullo stile cavalcata che prosegue come sostegno sonoro a tutta la composizione. I Riff duri e la batteria eseguono una ritmica non veloce ma cadenzata. La batteria poi presenta un suo personale pseudo-assolo; pseudo perché semplice e breve, ma efficace ai fini del pezzo. Esso è appena precedente l’assolo chitarristico anch’esso breve. La voce è pulita ma dal timbro nettamente rock. La chitarra solista decora i vari passaggi. E’ già presente il timbro caratteristico della chitarra di May, assolutamente riconoscibile e che ne fa un fondamento del suono dei Queen. Poi c’è un rallentamento in cui le due strofe vengono cantate una dalla voce roca del batterista Roger Taylor ed una da May, è un momento che fa da ponte verso la nuova crescita di tensione data dal ritornello, il quale è corale come spesso sarà anche in futuro nella loro carriera. La sensazione non è di cupezza, prediligendo il lato dell’energia e della vitalità. Scritta da Brian May, fu scelta come singolo di debutto dalla band e non dai discografici; il 45 giri uscì prima dell’album ma le radio la trasmisero poco per la presenza dell’intro considerato eccessivamente lungo. La prima versione fu registrata gratuitamente nel 1971 insieme ad altri due brani; un certo Terry Yeadon, amico di Brian May, aveva chiesto loro di collaudare le attrezzature del suo studio di registrazione, ed essi registrarono tra un cliente pagante e l’altro.

ROBERTO R. ha detto...

Il testo incita a rimanere reattivi e dinamici all’interno di una atmosfera leggermente cinica:
“Mi hanno detto un milione di volte
di tutte le difficoltà sulla mia strada;
ho cercato di diventare un po’ più saggio,
un po’ migliore ogni giorno,
ma se avessi attraversato un milione di fiumi
e se avessi viaggiato per un milione di miglia,
sarei ancora al punto di partenza….
……………………………………
Ma io ti dico di essere soddisfatto,
di rimanere così come sei.

Resta vivo,
ci vorrà tutto il tuo tempo e il tuo denaro,
dolcezza, sopravviverai.
Pensi davvero che giorno dopo giorno si possa diventare migliori?
No, io penso solo di essere due passi più vicino alla mia tomba.

Resta vivo,
tutti voi restate vivi,
resta vivo,
sii soddisfatto”.

L’album: “Queen”
Le registrazioni dell’album globalmente non sono di alto livello, nonostante i molteplici effetti ottenuti senza mezzi elettronici, ma la qualità compositiva è piuttosto interessante e contiene in embrione molte delle raffinatezze che caratterizzeranno la band. Sulla copertina c’era scritto che non v’era uso di sintetizzatori; questa presa di distanza derivava dal fatto che le song presentavano vari effetti e i Queen volevano far sapere che le tecniche utilizzate per realizzarli non erano legate all’elettronica. L’essenza del lavoro è prettamente Hard nonostante una certa valenza progressive; si percepiscono fortemente le influenze LedZeppeliniane. Al tempo le critiche specialistiche furono negative, oggi si può dire che il loro stile ha aperto la strada, per esempio, al Symphonic Metal. Venendo al valore tecnico della band, non si può rimanere fermi alla figura di Mercury, in quanto uno dei maggiori creativi dei quattro è stato proprio il chitarrista. Il suo stile polifonico gli ha fatto usare più chiavi e armonie rispetto all’Hard rock del tempo. Brian nasce nel ’47, all’età di 16 anni costruì con suo padre ingegnere (appassionato di modellismo) una chitarra oggi chiamata “Red Special”; questa chitarra permise tutta una serie di combinazioni di suono che nei Queen hanno permesso una sonorità personale specificatamente legata alla band. La musica dei Queen ha progressivamente aumentato la sua verve commerciale, seguendo strade più popolari, ma ogni volta svettando con maestria tra i generi e mettendoci una impronta personalissima assolutamente difficile da eguagliare. E’ restata però presente l’anima Hard Rock che è sempre stata di stampo May, infatti il chitarrista era il più rocker fra i quattro. Del resto la carriera del combo inglese inizia proprio con la bordata di May, appunto il brano “Keep yourself alive”. Sky Robertace Latini

ROBERTO R. ha detto...

LA POESIA DEL MESE (Novembre 2013):

Chi fermerà queste croci? di massimo bubola

Chi fermerà queste croci?
Chi non è neanche un numero
chi per religione
chi una stanza d'hotel desolata
chi tra le mura di casa
chi alla sua prima notte
chi dopo anni di botte
Chi attraverso i suoi piccoli figli
sgozzati come conigli
chi trovata in un bosco
chi gettata in un fosso
chi coperta di graffi feroci

Chi fermerà queste croci?
Chi fermerà queste croci?

Chi per il suo coraggio
chi nel mese di maggio

Chi spaventato dalla sua libertà
Dalla sua nuova felicità
Chi a San Valentino
Chi aspettando un bambino
Chi investita e bruciata per strada
Come da un fiume di lava
Chi venduta bambina
Incoronata di spine
Chi tatuata di ustioni feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?

Chi per morte annunciata
ghermita inseguita e placcata
e poi sbranata da cani feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?

Chi in una radura
Chi nella controra
Chi in ginocchio ferita a pregare
E dal suo amore vedersi bruciare
Chi o mia o di nessuno
quel sangue coperto di fumo
se un orizzonte di sguardi feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?
Massimo Bubola da “In alto i cuori” - anno 2013
Per questo mese di novembre ho scelto il testo di una canzone di Massimo Bubola. Conosciuto come il poeta con la chitarra, la sua vena poetica in passato si è felicemente espressa nei brani, ricchi di grande impatto emotivo e di autentica poesia, scritti con Fabrizio De André e per Fiorella Mannoia: Andrea, Don Raffaè, Fiume Sand Creek e Il cielo d'Irlanda. L’ultimo album dell'artista veronese, il ventesimo, contiene undici brani che lui stesso definisce delle instant songs, ossia delle ballate che prendono spunto da episodi accaduti durante l'anno e raccontati con il suo stile diretto e profondo allo stesso tempo. Un brano dell’album è "Chi fermerà queste croci?", sul tema del femminicidio. "Riguarda un crimine che è avvenuto sistematicamente per secoli senza quasi mai apparire nella sua fenomenologia di strage senza fine o come inquietante patologia sociale", dice Bubola. "Leggendo quella macabra lista di donne assassinate avevo la sensazione che, pur nella difformità della ferocia subita, delle diverse età: dalla prima adolescenza, alla vecchiaia, la diversità dei paesi di provenienza, dello stato sociale, al di là di tutto questo, insomma, ci fosse una rappresentazione che univa queste vittime in un comune, grande affresco. Così ho visto snodarsi all'infinito una processione in cui le vittime, come in un mosaico bizantino, avevano le stesse sembianze e gli stessi vestiti, come se la morte le avesse accomunate in un martirio di testimonianza e di lotta, contro una cultura che non vuole accettare la loro libertà di scelta e quindi la loro felicità, vista come la massima provocazione e minaccia per l'assassino spietato e perduto". Il testo è intenso, bello, profondo e fa quello che le canzoni in qualche caso hanno il dovere di fare: costringe a ragionare, a pensare ma soprattutto a vedere la realtà da un differente punto di vista. Ed è questo lo scopo ultimo delle "instant songs" di Bubola, fare in modo che le canzoni siano una lente d'ingrandimento per leggere meglio, con più attenzione, con più passione, la realtà. Riporto testualmente come lo stesso Bubola racconta la struttura narrativa del testo. “La canzone "Chi fermerà queste croci ?" è concepita come un salmo biblico sul femminicidio, un lungo e straziante elenco di casi, di violenze e di morti femminili avvenute negli ultimi due anni. Ogni verso della canzone ha attinenza a fatti realmente accaduti, come il recente assassinio della giovane Fabiana di Corigliano Calabro il 25 maggio del 2013.

ROBERTO R. ha detto...

Chi in una radura

Chi nella controra
Chi in ginocchio ferita a pregare
E dal suo amore vedersi bruciare

C'è chi viene uccisa attraverso i propri figli come nell'episodio di Umbertide, quando Mustapha Hajjaji, non trovando la moglie che era separata nella sua casa, sgozzò i loro due figli di otto e dodici anni, nel novembre del 2012.
Chi attraverso i suoi piccoli figli
sgozzati come conigli

C'è Alessia Francesca Simonetta, 25 anni, incinta che viene uccisa davanti al figlio di 14 mesi , nel settembre del 2012 alla periferia di Milano.
Chi aspettando un bambino

C'è chi viene accoltellata incinta e col figlio, perché si è rifatta una vita.
Chi spaventato dalla sua libertà
Dalla sua nuova felicità

C'è Giuseppina che muore investita e bruciata dal marito il giorno di San Valentino a Napoli.
Chi a San Valentino
Chi investita e bruciata per strada
Come da un fiume di lava

C'è la bambina del Montenegro venduta come sposa a 13 anni violentata, segregata e seviziata con un filo elettrico dal futuro marito e dalla madre dello stesso a Marghera, Venezia, nell'agosto del 2012.
Chi venduta bambina
Incoronata di spine
Chi tatuata di ustioni feroci

Scandisce tutto questo la costante e inquieta domanda:
Chi fermerà queste croci ? Chi fermerà queste croci?
Sia nel significato di chi fermerà questa strage, sia di chi potrà fermare questa profonda lotta dei movimenti che si sono uniti per bloccare questo massacro. “
Credo ci sia poco da aggiungere. Una unica cosa: che questo mese di novembre 2013 ed in particolare il giorno 25 sia un momento di profonda riflessione e mobilitazione per tutti, donne e uomini.
CHIARA PASSARELLA
http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/massimo-bubola-chi-fermera-queste-croci/131449/129956

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Ottobre 2013): Marmellata di prugne di Patrizia Fortunati

Quando ho iniziato a leggere Marmellata di Prugne, non immaginavo che mi sarebbe piaciuto molto. Non sottovalutavo l’autrice, Patrizia Fortunati, che conosco e stimo, ma, considerato l’argomento e la genesi del libro, pensavo che si sarebbe trattato della solita storia caratterizzata da buoni sentimenti che, facendo leva sull’emotività del lettore, mirassero alla sua struggente commozione presto rassicurata dal trionfo di un’umanità benevola, che con le sue iniziative pone rimedio ad una atavica ingiustizia costituzionale segnata dalle diverse condizioni di vita. Niente di tutto questo. Patrizia è molto brava perché regala emozioni senza nessun cedimento al pietismo dell’emotività. Racconta la vita di Lyudmila in maniera estremamente naturale, con uno stile scarno e felicemente essenziale. Nella storia l’io narrante è una donna che vive nel Belarus, in una zona interessata dalle radiazioni provenienti da Chernobyl, che trascorre le sue estati presso una famiglia di italiani. C’è un continuo confronto fra le difficili condizioni di vita della sua terra di origine, a cui tuttavia rimane sempre fortemente legata, e quelle piacevoli vacanze estive. Una delle scoperte di Lyudmila sarà che si può mangiare non solo in solitudine per sfamarsi, come era solita fare nella sua casa, ma anche per il piacere di condividere il gusto dei cibi in compagnia degli altri intorno ad un tavolo. In Italia la vita, almeno in apparenza, non ha i connotati di quella difficile lotta per la sopravvivenza che invece la caratterizza nel suo Paese. Il ricordo delle estati trascorse in Italia, che avevano forgiato la sua umanità, l’accompagna per tutta l’esistenza, segnata da stenti, da qualche disgrazia, da legami sentimentali infelici, dalla soddisfazione di crescere nel migliore dei modi due figlie che amorevolmente la ripagano dei suoi grandi sacrifici, e da una primordialità, che conferisce connotati di epicità alla sua esistenza. Sembra che il vero protagonista sia il tempo che ci cambia, che decide per noi mentre cerchiamo di imporre le nostre determinazioni. Lyudmila, novantenne, prossima al congedo finale, narra la sua storia. Il libro credo che tragga ispirazione dall’amicizia fra Patrizia e una ragazza di quel Paese che d’estate veniva ospitata dalla sua famiglia. Un legame forte che dura ancora: nel frattempo quella ingenua, timida e sfortunata ragazza straniera si è trasformata in una donna matura che ha capitalizzato positivamente le sue esperienze. Patrizia Fortunati racconta in prima persona questa storia dimostrando molto talento nel narrare. Le frasi sono brevi, essenziali semplici, scarne, declinate da una logica ferrea, come presumibilmente dovevano essere i pensieri di quella ragazza/donna ucraina abituata all’essenzialità da una vita dura, ma illuminata dalla luce di quelle estati italiane. ROBERTO RAPACCINI

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ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Settembre 2013):


SEGRETI E BUGIE ( Secrets and Lies) GB 1996

Regia. Mike Leigh



Trama:

Hortense, optometrista di colore, ha da poco perso il padre adottivo. Ora che è sola sente il bisogno di cercare la sua madre naturale. Le viene suggerito di rivolgersi ad un'assistente sociale che accetta di darle la sua pratica. La donna, costernata scopre che sua madre è una bianca, si chiama Cynthia ed è una donna triste, fragile e frustrata, con una figlia ventenne infelice e aggressiva, e con un fratello in crisi. Hortense trova il coraggio di telefonarle e di fissare un appuntamento.

Più che un film drammatico nell’accezione canonica del genere, Segreti e bugie potrebbe essere definito a buon diritto una commedia dotata di un implacabile retrogusto drammatico. La storia si sviluppa equamente spartita sui due piani delle protagoniste, ovvero una ragazza di colore da una parte e dall’altra la sua madre naturale, bianca, nevrotica, con relativa famiglia a corredo. Mike Leigh racconta con il pudore e l'apertura necessari, questa storia in un film senza star e senza bellezze, che proprio grazie alla sua portata umana e alla semplice sensibilità del regista ha conquistato la Palma d'oro a Cannes nel 1996 così come il premio per la migliore attrice a Brenda Blethyn che è la superlativa mattatrice e fulcro di tutto. Magistralmente interpreta Cynthia una madre che all’inizio non ricorda di aver abbandonato una neonata concepita in una fugace notte d’amore, ma non per scelleratezza ma solo perché la vita le è piombata addosso con tutto il suo peso, implacabile e difficile. E' una donna che vive disadattata, inquieta, tormentata, piena di ferite e di sensi di colpa, che per un bel po' non si capisce da cosa provengano. E' incapace di vivere e di affrontare anche la minima contrarietà. I rapporti che ha con gli altri sono tesi e pieni di incomprensioni. Poi il regista solleva gradatamente il velo sull'origine di tutto questo disordine, e piano piano i conti cominciano a tornare. La personalità disastrata della donna comincia a ricomporsi e a riordinarsi. Smette di bere e diventa una persona equilibrata e più serena. Le vite degli altri personaggi, benché in misura minore, sono tutte compromesse da conti aperti e ferite del passato. L'origine delle sofferenze di tutti sono appunto i segreti e le bugie che pesano come macigni sulle loro vite. L'idea di essere costretti a mentire per proteggere la serenità propria e altrui è stato uno stupido errore, fonte di molto dolore e incomprensioni. Mike Leigh dimostra di essere un grande cineasta confezionando forse la più bella sequenza del cinema anni 90: il confronto nel bar tra Hortense e Cynthia con una ripresa frontale ma voragini di spazio che si aprono fuori campo solo seguendo gli sguardi delle due protagoniste, chiamate a guardare altrove dove rivedono e rivivono trant’anni di vita non trascorsa insieme, con tutti gli errori, le illusioni e le speranze del caso. Un film bello, che condensa le caratteristiche di una scuola di cinema inglese unica in Europa, rappresentata pure da Ken Loach o Stephen Frears: l'attenzione realistica, l'interesse analitico per la vita quotidiana della gente non ricca né famosa né criminale che soffre e non conta; la narrazione mista di dramma e comicità, emozione e commedia, lo stile documentaristico nutrito e corretto dalla presenza di attori bravissimi; la rinuncia al nichilismo catastrofico, ai finali tragici, alle conclusioni azzeranti, a favore di quel dolente andare avanti raro nello spettacolo ma tipico della realtà. Cristina Giacometti

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Novembre 2013): “KEEP YOURSELF ALIVE” (1973) dal primo album dei Queen




I Queen sono una formazione di musicisti che ha travalicato i generi musicali, diventando una icona pop-rock universale. Tutti amano questa band senza magari conoscerne tutta la discografia. Il vero successo mondiale arrivò negli anni ‘80, ma era già internazionale all’interno del genere musicale d’esordio: l’Hard Rock. Si, perchè i Queen nascono come gruppo duro, nella scia di Led Zeppelin e Uriah Heep. Solo successivamente si inserirono nella dance e nel pop, conservando però una netta impronta rock. Nonostante le molteplici capacità tecniche e di personalità compositiva generale, la band ha colpito l’immaginario collettivo soprattutto grazie alla magnifica voce del compianto Freddy Mercury, capace di finezze ed interpretazione che forse nessun’altro cantante moderno, dal jazz in poi, ha saputo esprimere. Quest’anno, il primo album dei Queen compie 40 anni. Il brano: “Keep yourself alive”. Una chitarra ritmica con flanger inizia l’avventura discografica del famosissimo quartetto: è la prima traccia del primo disco. L’inizio è una specie di intro di circa 35 secondi; esso consiste in un crescendo che inspessisce la trama sonora aggiungendo uno strumento dopo l’altro, nella forma stilistica che già era stata realizzata dai Beatles in “Day Tripper”e soprattutto dai Deep Purple in “Smoke on the war”. In realtà l’introduzione è già la canzone, è una impronta che pone il riff come anima principale che dà il senso alla composizione, cosa tanto comune nel metal. Qui infatti la chitarra dell’intro è sullo stile cavalcata che prosegue come sostegno sonoro a tutta la struttura. Il brano nella sua totalità poi usa Riff duri che con la batteria eseguono una ritmica non veloce ma cadenzata. La batteria poi presenta un suo personale pseudo-assolo; pseudo perché semplice e breve, ma efficace ai fini del pezzo. Esso è appena precedente l’assolo chitarristico anch’esso breve. La voce è pulita ma dal timbro nettamente rock. La chitarra solista decora i vari passaggi. E’ già presente il timbro caratteristico della chitarra di May, assolutamente riconoscibile e che ne fa un fondamento del suono dei Queen. Poi c’è un rallentamento in cui le due strofe vengono cantate una dalla voce roca del batterista Roger Taylor ed una da May, è un momento che fa da ponte verso la nuova crescita di tensione data dal ritornello, il quale è corale come spesso sarà anche in futuro nella loro carriera. La sensazione non è di cupezza, prediligendo il lato dell’energia e della vitalità. Scritta da Brian May, fu scelta come singolo di debutto dalla band e non dai discografici; il 45 giri uscì prima dell’album ma le radio la trasmisero poco per la presenza dell’intro considerato eccessivamente lungo. La prima versione fu registrata gratuitamente nel 1971 insieme ad altri due brani; un certo Terry Yeadon, amico di Brian May, aveva chiesto loro di collaudare le attrezzature del suo studio di registrazione, ed essi registrarono tra un cliente pagante e l’altro.

ROBERTO R. ha detto...

Il testo incita a rimanere reattivi e dinamici all’interno di una atmosfera leggermente cinica:

“Mi hanno detto un milione di volte

di tutte le difficoltà sulla mia strada;

ho cercato di diventare un po’ più saggio,

un po’ migliore ogni giorno,

ma se avessi attraversato un milione di fiumi

e se avessi viaggiato per un milione di miglia,

sarei ancora al punto di partenza….

……………………………………

Ma io ti dico di essere soddisfatto,

di rimanere così come sei.



Resta vivo,

ci vorrà tutto il tuo tempo e il tuo denaro,

dolcezza, sopravviverai.

Pensi davvero che giorno dopo giorno si possa diventare migliori?

No, io penso solo di essere due passi più vicino alla mia tomba.



Resta vivo,

tutti voi restate vivi,

resta vivo,

sii soddisfatto”.



L’album: “Queen”

Le registrazioni dell’album globalmente non sono di alto livello, nonostante i molteplici effetti ottenuti senza mezzi elettronici, ma la qualità compositiva è piuttosto interessante e contiene in embrione molte delle raffinatezze che caratterizzeranno la band. Sulla copertina c’era scritto che non v’era uso di sintetizzatori; questa presa di distanza derivava dal fatto che le song presentavano vari effetti e i Queen volevano far sapere che le tecniche utilizzate per realizzarli non erano legate all’elettronica. L’essenza del lavoro è prettamente Hard nonostante una certa valenza progressive; si percepiscono fortemente le influenze LedZeppeliniane. Al tempo le critiche specialistiche furono negative, oggi si può dire che il loro stile ha aperto la strada, per esempio, al Symphonic Metal. Venendo al valore tecnico della band, non si può rimanere fermi alla figura di Mercury, in quanto uno dei maggiori creativi dei quattro è stato proprio il chitarrista. Il suo stile polifonico gli ha fatto usare più chiavi e armonie rispetto all’Hard rock del tempo. Brian nasce nel ’47, all’età di 16 anni costruì con suo padre ingegnere (appassionato di modellismo) una chitarra oggi chiamata “Red Special”; questa chitarra permise tutta una serie di combinazioni di suono che nei Queen hanno permesso una sonorità personale specificatamente legata alla band. La musica dei Queen ha progressivamente aumentato la sua verve commerciale, seguendo strade più popolari, ma ogni volta svettando con maestria tra i generi e mettendoci una impronta personalissima assolutamente difficile da eguagliare. E’ restata però presente l’anima Hard Rock che è sempre stata di stampo May, infatti il chitarrista era il più rocker fra i quattro. Del resto la carriera del combo inglese inizia proprio con la bordata di May, appunto il brano “Keep yourself alive”. Sky Robertace Latini



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ROBERTO R. ha detto...

LA POESIA DEL MESE (Novembre 2013):

Chi fermerà queste croci? di massimo bubola



Chi fermerà queste croci?

Chi non è neanche un numero
chi per religione
chi una stanza d'hotel desolata
chi tra le mura di casa
chi alla sua prima notte
chi dopo anni di botte
Chi attraverso i suoi piccoli figli
sgozzati come conigli
chi trovata in un bosco
chi gettata in un fosso
chi coperta di graffi feroci

Chi fermerà queste croci?
Chi fermerà queste croci?

Chi per il suo coraggio
chi nel mese di maggio

Chi spaventato dalla sua libertà
Dalla sua nuova felicità
Chi a San Valentino
Chi aspettando un bambino
Chi investita e bruciata per strada
Come da un fiume di lava
Chi venduta bambina
Incoronata di spine
Chi tatuata di ustioni feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?

Chi per morte annunciata
ghermita inseguita e placcata
e poi sbranata da cani feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?

Chi in una radura
Chi nella controra
Chi in ginocchio ferita a pregare
E dal suo amore vedersi bruciare
Chi o mia o di nessuno
quel sangue coperto di fumo
se un orizzonte di sguardi feroci

Chi fermerà queste croci?
chi fermerà queste croci?

Massimo Bubola da “In alto i cuori” - anno 2013

ROBERTO R. ha detto...

Per questo mese di novembre ho scelto il testo di una canzone di Massimo Bubola. Conosciuto come il poeta con la chitarra, la sua vena poetica in passato si è felicemente espressa nei brani, ricchi di grande impatto emotivo e di autentica poesia, scritti con Fabrizio De André e per Fiorella Mannoia: Andrea, Don Raffaè, Fiume Sand Creek e Il cielo d'Irlanda. L’ultimo album dell'artista veronese, il ventesimo, contiene undici brani che lui stesso definisce delle instant songs, ossia delle ballate che prendono spunto da episodi accaduti durante l'anno e raccontati con il suo stile diretto e profondo allo stesso tempo. Un brano dell’album è "Chi fermerà queste croci?", sul tema del femminicidio. "Riguarda un crimine che è avvenuto sistematicamente per secoli senza quasi mai apparire nella sua fenomenologia di strage senza fine o come inquietante patologia sociale", dice Bubola. "Leggendo quella macabra lista di donne assassinate avevo la sensazione che, pur nella difformità della ferocia subita, delle diverse età: dalla prima adolescenza, alla vecchiaia, la diversità dei paesi di provenienza, dello stato sociale, al di là di tutto questo, insomma, ci fosse una rappresentazione che univa queste vittime in un comune, grande affresco. Così ho visto snodarsi all'infinito una processione in cui le vittime, come in un mosaico bizantino, avevano le stesse sembianze e gli stessi vestiti, come se la morte le avesse accomunate in un martirio di testimonianza e di lotta, contro una cultura che non vuole accettare la loro libertà di scelta e quindi la loro felicità, vista come la massima provocazione e minaccia per l'assassino spietato e perduto". Il testo è intenso, bello, profondo e fa quello che le canzoni in qualche caso hanno il dovere di fare: costringe a ragionare, a pensare ma soprattutto a vedere la realtà da un differente punto di vista. Ed è questo lo scopo ultimo delle "instant songs" di Bubola, fare in modo che le canzoni siano una lente d'ingrandimento per leggere meglio, con più attenzione, con più passione, la realtà. Riporto testualmente come lo stesso Bubola racconta la struttura narrativa del testo. “La canzone "Chi fermerà queste croci ?" è concepita come un salmo biblico sul femminicidio, un lungo e straziante elenco di casi, di violenze e di morti femminili avvenute negli ultimi due anni. Ogni verso della canzone ha attinenza a fatti realmente accaduti, come il recente assassinio della giovane Fabiana di Corigliano Calabro il 25 maggio del 2013.

ROBERTO R. ha detto...

Chi in una radura


Chi nella controra
Chi in ginocchio ferita a pregare
E dal suo amore vedersi bruciare

C'è chi viene uccisa attraverso i propri figli come nell'episodio di Umbertide, quando Mustapha Hajjaji, non trovando la moglie che era separata nella sua casa, sgozzò i loro due figli di otto e dodici anni, nel novembre del 2012.

Chi attraverso i suoi piccoli figli
sgozzati come conigli

C'è Alessia Francesca Simonetta, 25 anni, incinta che viene uccisa davanti al figlio di 14 mesi , nel settembre del 2012 alla periferia di Milano.

Chi aspettando un bambino

C'è chi viene accoltellata incinta e col figlio, perché si è rifatta una vita.

Chi spaventato dalla sua libertà
Dalla sua nuova felicità

C'è Giuseppina che muore investita e bruciata dal marito il giorno di San Valentino a Napoli.

Chi a San Valentino
Chi investita e bruciata per strada
Come da un fiume di lava

C'è la bambina del Montenegro venduta come sposa a 13 anni violentata, segregata e seviziata con un filo elettrico dal futuro marito e dalla madre dello stesso a Marghera, Venezia, nell'agosto del 2012.

Chi venduta bambina
Incoronata di spine
Chi tatuata di ustioni feroci

Scandisce tutto questo la costante e inquieta domanda:

Chi fermerà queste croci ? Chi fermerà queste croci?

Sia nel significato di chi fermerà questa strage, sia di chi potrà fermare questa profonda lotta dei movimenti che si sono uniti per bloccare questo massacro. “

Credo ci sia poco da aggiungere. Una unica cosa: che questo mese di novembre 2013 ed in particolare il giorno 25 sia un momento di profonda riflessione e mobilitazione per tutti, donne e uomini.

CHIARA PASSARELLA

http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/massimo-bubola-chi-fermera-queste-croci/131449/129956

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Novembre 2013):L'inverno della cultura di Jean Clair



Jean Clair è uno scrittore e saggista, ma soprattutto è uno storico dell'arte. In proposito è uno fra i critici più importanti d’Europa. È famoso per le sue posizioni originali, controcorrente e, talvolta, molto dure nei confronti dell’arte contemporanea. Il suo saggio ‘L’inverno della cultura’ si apre con questa citazione: "Quando il sole della cultura è basso sull'orizzonte, anche i nani proiettano grandi ombre." (di Karl Kraus). Con un tono catastrofista Clair dimostra come arte e cultura passino in questi anni un momento particolarmente oscuro. L’arte è in grado solo di puntare su una notorietà basata sullo scandalo e sulla sola ricerca di originalità, incoraggiata anche da un mercato orientato solo dalla speculazione e da musei che, incapaci di essere promotori di vera cultura, svolgono solo un arida funzione autoreferenziale. Forse, anche se non detto esplicitamente, Clair vuol far capire che esiste un gruppo di gallerie e di opinion leader che hanno più potere di altri nel determinare il valore economico e anche culturale dell'opera. Il libro è quindi un’indagine molto profonda, non convenzionale, amara, sull’attuale sistema dell’arte contemporanea, che in questo modo rischia di ridursi a pura speculazione. Il libro è quindi un manifesto contro la degenerazione dell’arte. In altri scritti Clair ha evidenziato l’imbarbarimento estetico indotto da artisti preoccupati solo delle strategie di markrting, mentre i musei sono ormai grandi magazzini affollati da chi cerca solo mostre-evento. ROBERTO RAPACCINI


ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Settembre 2013):



SEGRETI E BUGIE ( Secrets and Lies) GB 1996

Regia. Mike Leigh



Trama:

Hortense, optometrista di colore, ha da poco perso il padre adottivo. Ora che è sola sente il bisogno di cercare la sua madre naturale. Le viene suggerito di rivolgersi ad un'assistente sociale che accetta di darle la sua pratica. La donna, costernata scopre che sua madre è una bianca, si chiama Cynthia ed è una donna triste, fragile e frustrata, con una figlia ventenne infelice e aggressiva, e con un fratello in crisi. Hortense trova il coraggio di telefonarle e di fissare un appuntamento.

Più che un film drammatico nell’accezione canonica del genere, Segreti e bugie potrebbe essere definito a buon diritto una commedia dotata di un implacabile retrogusto drammatico. La storia si sviluppa equamente spartita sui due piani delle protagoniste, ovvero una ragazza di colore da una parte e dall’altra la sua madre naturale, bianca, nevrotica, con relativa famiglia a corredo. Mike Leigh racconta con il pudore e l'apertura necessari, questa storia in un film senza star e senza bellezze, che proprio grazie alla sua portata umana e alla semplice sensibilità del regista ha conquistato la Palma d'oro a Cannes nel 1996 così come il premio per la migliore attrice a Brenda Blethyn che è la superlativa mattatrice e fulcro di tutto. Magistralmente interpreta Cynthia una madre che all’inizio non ricorda di aver abbandonato una neonata concepita in una fugace notte d’amore, ma non per scelleratezza ma solo perché la vita le è piombata addosso con tutto il suo peso, implacabile e difficile. E' una donna che vive disadattata, inquieta, tormentata, piena di ferite e di sensi di colpa, che per un bel po' non si capisce da cosa provengano. E' incapace di vivere e di affrontare anche la minima contrarietà. I rapporti che ha con gli altri sono tesi e pieni di incomprensioni. Poi il regista solleva gradatamente il velo sull'origine di tutto questo disordine, e piano piano i conti cominciano a tornare. La personalità disastrata della donna comincia a ricomporsi e a riordinarsi. Smette di bere e diventa una persona equilibrata e più serena. Le vite degli altri personaggi, benché in misura minore, sono tutte compromesse da conti aperti e ferite del passato. L'origine delle sofferenze di tutti sono appunto i segreti e le bugie che pesano come macigni sulle loro vite. L'idea di essere costretti a mentire per proteggere la serenità propria e altrui è stato uno stupido errore, fonte di molto dolore e incomprensioni. Mike Leigh dimostra di essere un grande cineasta confezionando forse la più bella sequenza del cinema anni 90: il confronto nel bar tra Hortense e Cynthia con una ripresa frontale ma voragini di spazio che si aprono fuori campo solo seguendo gli sguardi delle due protagoniste, chiamate a guardare altrove dove rivedono e rivivono trant’anni di vita non trascorsa insieme, con tutti gli errori, le illusioni e le speranze del caso. Un film bello, che condensa le caratteristiche di una scuola di cinema inglese unica in Europa, rappresentata pure da Ken Loach o Stephen Frears: l'attenzione realistica, l'interesse analitico per la vita quotidiana della gente non ricca né famosa né criminale che soffre e non conta; la narrazione mista di dramma e comicità, emozione e commedia, lo stile documentaristico nutrito e corretto dalla presenza di attori bravissimi; la rinuncia al nichilismo catastrofico, ai finali tragici, alle conclusioni azzeranti, a favore di quel dolente andare avanti raro nello spettacolo ma tipico della realtà. Cristina Giacometti

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Dicembre 2013): “THE PHANTOM AGONY” dall’album “The phantom agony” degli Epica (Olanda) – 2003

I finlandesi Nightwish e gli italiani Rhapsody Of Fire sono all’apice del Symphonic Metal per originalità ed energia, ma gli olandesi Epica vengono subito dopo, e forse, rispetto a loro, sono ancora più vicini alla musica classica sinfonica. L’anno in corso festeggia i dieci anni di vita della band, a tal scopo è uscito un DVD “RETROSPECT” tratto dal concerto tenutosi ad Eindhoven. Nel dvd una orchestra di settanta elementi che sottolinea la maestosità di un sound che coniuga in maniera strettissima classica e metal; e pur apparendo breve la loro carriera, i 5 album prodotti sono di una ispirata e consistente intensità, riuscendo sempre a mantenere alto il livello artistico. Il lavoro dell’anno scorso, “Requiem for the indifferent” può essere considerato addirittura il migliore mai realizzato.
Il Brano:

“THE PHANTOM AGONY” è la title-track del primo disco, appunto: “The phantom agony” del 2003.

E’ diviso in tre parti.

1. “Impasse of thoughts”

Un tappeto morbido estremamente classico e poco rock, porta l’ascoltatore verso un sentiero che progressivamente si arricchisce di brio e dinamicità. La voce della cantante sussurra in un parlato accennato:

I can't see you, I can't hear you
Do you still exist?
I can't feel you, I can't touch you,
Do you exist?
The Phantom Agony
I can't taste you, I can't think of you,
Do we exist at all?


ROBERTO R. ha detto...

2. “Between hope and despair”

Al centro si velocizza il ritmo con i violini che accentrano l’attenzione mentre il coro lirico crea potenza ed enfasi. Alle voci si aggiunge il cantato growl/scream di Mark Jansen (chitarra ritmica) e finalmente entra in scena la voce piena della mezzosoprano Simone Simons.

The future doesn't pass
And the past won't overtake the present
All that remains is an obsolete illusion
We are afraid of all the things that could not be
A phantom agony
Do we dream at night
Or do we share the same old fantasy?
I am a silhouette of the person wandering in my dreams

Tears of unprecedented beauty
Reveal the truth of existence
We're all sadists
The age-old development of consciousness
Drives us away from the essence of life
We meditate too much,
so that our instincts will fade away
They fade away
What's the point of life
And what's the meaning if we all die in the end?
Does it make sense to learn or do we forget everything?

Tears of unprecedented beauty
Reveal the truth of existence
We're all pessimists
Teach me how to see and free the disbelief in me
What we get is what we see, the Phantom Agony


3. Nevermore

La Potenza si stempera in un dolce e malinconico andante, con un finale strumentale lungo che si riallontana dalle caratteristiche metal.

The lucidity of my mind has been revealde in new dreams
I am able to travel where my heart goes
In search of self-realisation
This is the way to escape from our agitation
And develop ourselves
Use your illusion and enter my dream...


Il brano non si incentra sul cantato della cantante, ma nemmeno sul virtuosismo strumentale, quanto invece sulla struttura e sull’atmosfera. La rossa Simone è la frontwoman che però in questa composizione non è il personaggio principale, lasciando molto spazio al cantato corale. La parte più rock si può dire che sia una ritmica chitarrista serrata nei momenti più veloci, ma poi anche nel cantato corrosivo maschile. I testi degli Epica solitamente cercano di essere impegnati e mai futili. Qui il fantasma a cui si accenna è la realtà della vita stessa, che scorre scomparendo; c’è e non c’è, tra ricordi, desideri e il tempo che trascorre. Musicalmente si tratta di una suite di ampio respiro (9 minuti circa), con una preponderante essenza melodica, lontana da sferzate violente, quindi senza risvolti cupi. Anche i momenti più metal non raggiungono mai asprezza o aggressività, nemmeno alla presenza delle vocalizzazioni in growl. Si esprime potenza senza cattiveria e molta intimità sonora. SKY ROBERTACE LATINI

ROBERTO R. ha detto...

LA POESIA DEL MESE (Dicembre 2013): L’ALBERO DI NATALE DI NAZIM HIKMET



L’albero di Natale



A sud del golfo di Finlandia la notte
vicino al mare brumoso
l'albero di Natale scintilla
tra oscure torri gotiche
corazze di cavalieri teutoni
e ciminiere di fabbriche
l'albero di Natale
l'albero di Natale canta
sulla piazza bianca di neve
canzoni dell'Estonia
lunghissimo scintillante
pagliuzzato d'oro
l'albero di Natale
tu sei nella palla di vetro rosso
i tuoi capelli son paglia gialla le ciglia azzurre
sono io che l'ho appesa
mettendotici dentro
il tuo collo bianco è lungo e rotondo
ti ho messa nella palla di vetro rosso
con i miei dubbi
con le mie ansietà con le mie parole
le mie speranze le mie carezze
a tutti gli alberi di Natale a tutti gli alberi
a tutti i balconi le finestre i chiodi le nostalgie
ho appeso la palla di vetro rosso.

Nazim Hikmet dicembre 1961 -

ROBERTO R. ha detto...




Il titolo della poesia che ho scelto per questo mese di dicembre può essere fuorviante e portare il lettore, al primo sguardo, fuori strada. Senza nulla togliere alla tradizione e senza entrare in sterili polemiche di critica letteraria , rimanendo però coerente alla linea di pensiero che contraddistingue le scelte letterarie del ns blog, linea che predilige testi poetici e autori fuori dai circuiti commerciali e della grossa fruizione, ho scelto questo testo di Hikmet. Un testo dove l’albero di Natale è solo un pretesto letterario dal quale parte una sorta di “antropomorfizzazione” dell’albero stesso e delle sue decorazioni. Una poesia dove l’atmosfera natalizia fa da sottofondo ad una struggente lirica d’amore e dove il Natale stesso diventa per il poeta occasione di riflessione sui propri dubbi, le proprie speranze, le proprie ansie. Comunicare è forse l’arte più difficile in cui l’essere umano si sia mai cimentato. Raccontare la propria vita in versi, condensare la nostalgia, il dolore, l’amore, la solitudine, la gioia, e tutta la variegata trama dei sentimenti umani in poche righe: l’arte della poesia è ancora più difficile, tanto più nella contemporaneità di un mondo che scorre veloce, sempre più in fretta verso mete ignote, in cui fermarsi a prestare attenzione alle piccole cose, o immergersi negli abissi interiori equivale a smarrire l’ancora, perdendo la certezza di poter riemergere. La poesia è “un modo di concepire”, scrive Nazim Hikmet in una lettera a Joyce Lussu, amica e traduttrice dei suoi versi. Come dire, la poesia è uno stile di vita, un’attitudine che risiede non già nell’oggetto della poesia, ma negli occhi e nella mente di chi guarda, e scrive quello che vede. Esiste “un altro modo” di “concepire la poesia”: la scoperta della poesia, così come viene raccontata da Hikmet, sembra quasi una improvvisa rivelazione, l’illuminazione divina di un’anima che tutt’a un tratto diventa ispirata, che repentinamente, come una folgore illumina l’oscurità, riesce a cogliere tutto insieme il senso profondo di una verità che prima le era ignota, e “da allora, non può non scrivere delle poesie”. Nazim Hikmet (1902-1963) nasce in una famiglia in cui la poesia era una vecchia, gradita ospite fissa: suo nonno paterno era autore di poesie in lingua ottomana, sua madre appassionata divoratrice della poesia francese, da Baudelaire a Lamartine; un clima indubbiamente stimolante per il giovane Nazim, che sin da piccolo ebbe l’opportunità di confrontarsi con l’arte della metrica, ma allo stesso tempo un ambiente contraddittorio e divergente, che metterà l’Hikmet, poeta adulto, davanti alla necessità di conciliare le ristrettezze metrico-formali della poesia scritta in ottomano, lingua assolutamente diversa dal turco parlato, con l’ebbrezza svergognata di versi “maledetti” come quelli di Baudelaire. Una difficoltà di conciliazione in cui si esprime anche tutta la controversia di una situazione storico-politica, a cavallo tra le due guerre mondiali, in cui il nuovo prorompe prepotentemente nel vecchio, sradicando e abbattendo tradizioni millenarie di popolazioni e imperi antichi, come la Turchia, da sempre sospesa sulla linea di confine che separa Oriente e Occidente, e il popolo turco, animato da una conflittualità che si potrebbe definire geografica. Conflittualità patriottica cui Hikmet, non potendo rifuggirne, ha invece tentato di dare voce tramite i suoi versi, frasi d’amore spezzate, monche come un arto perduto in guerra, o lunghi poemi dal vago sapore epico, sempre armoniosi come un melodioso canto di uccelli, o come il fruscio setoso del vento tra le foglie degli alberi. La poesia di Nazim Hikmet è figlia di stridenti contrasti, sociali, ma anche personali: prima il carcere, cui fu condannato per le sue idee comuniste e anti-naziste, poi la censura in patria delle sue opere, infine l’esilio volontario dalla sua terra natia, che neanche da lontano smise di amare.

ROBERTO R. ha detto...

La poesia è matrice e risolutrice di questi contrasti, ne è causa ed espressione, salvezza e schiavitù; attraverso la poesia Hikmet ci racconta un’epoca contraddittoria, dai grandi conflitti mondiali alla guerra di indipendenza turca dalla Grecia, alla nascita del comunismo leninista; epoca che nella sua poesia trova un momento di sintesi pura, grazie all’esigenza (e alla capacità dello scrittore) di dirimere, con uno stile tutto personale, fondato sulla semplicità della parola, usata in modo diretto, quasi prosaico, senza fronzoli, controversie poetiche tra tradizione e innovazione. Sciogliere i nodi problematici della poesia, superare l’opposizione dicotomica tra vecchio e nuovo, equivale a districare i nodi polemici della storia, della cultura e della società; e di questo parla, della vita e della storia, dell’amore (per sua moglie Munevvér, cui è dedicata la famosa raccolta “Lettere dal carcere” e per la patria) e della nostalgia, con purezza invidiabile, la poesia di Nazim Hikmet. Parole semplici, incisive, che permangono oltre la vita, raccontandola, e oltre la morte stessa. Come scrive Joyce Lussu: “Che sia morto, non ha un grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità e infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo e a ritrovarlo”. Ispirato da grandi nomi come Yaya Kemal, Tevfiq Fikret e Vladimir Majakovskij, conosciuto durante i lunghi anni moscoviti, stimato da artisti del calibro di Tristan Tzara, Pablo Picasso e Jean Paul Sartre, tutti firmatari di una petizione in favore della sua scarcerazione (1950), Nazim Hikmet è cantore immortale di un secolo, il ventesimo, che amò senza riserve, nonostante la sua anima antica.

Del resto, il mio secolo non mi fa paura

il mio secolo pieno di miserie e di scandali

il mio secolo coraggioso grande ed eroico.

Non ho mai rimpianto d’esser venuto al mondo troppo presto

Sono del ventesimo secolo e ne son fiero.

(N.H., 1954)


CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

La poesia è matrice e risolutrice di questi contrasti, ne è causa ed espressione, salvezza e schiavitù; attraverso la poesia Hikmet ci racconta un’epoca contraddittoria, dai grandi conflitti mondiali alla guerra di indipendenza turca dalla Grecia, alla nascita del comunismo leninista; epoca che nella sua poesia trova un momento di sintesi pura, grazie all’esigenza (e alla capacità dello scrittore) di dirimere, con uno stile tutto personale, fondato sulla semplicità della parola, usata in modo diretto, quasi prosaico, senza fronzoli, controversie poetiche tra tradizione e innovazione. Sciogliere i nodi problematici della poesia, superare l’opposizione dicotomica tra vecchio e nuovo, equivale a districare i nodi polemici della storia, della cultura e della società; e di questo parla, della vita e della storia, dell’amore (per sua moglie Munevvér, cui è dedicata la famosa raccolta “Lettere dal carcere” e per la patria) e della nostalgia, con purezza invidiabile, la poesia di Nazim Hikmet. Parole semplici, incisive, che permangono oltre la vita, raccontandola, e oltre la morte stessa. Come scrive Joyce Lussu: “Che sia morto, non ha un grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità e infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo e a ritrovarlo”. Ispirato da grandi nomi come Yaya Kemal, Tevfiq Fikret e Vladimir Majakovskij, conosciuto durante i lunghi anni moscoviti, stimato da artisti del calibro di Tristan Tzara, Pablo Picasso e Jean Paul Sartre, tutti firmatari di una petizione in favore della sua scarcerazione (1950), Nazim Hikmet è cantore immortale di un secolo, il ventesimo, che amò senza riserve, nonostante la sua anima antica.

Del resto, il mio secolo non mi fa paura

il mio secolo pieno di miserie e di scandali

il mio secolo coraggioso grande ed eroico.

Non ho mai rimpianto d’esser venuto al mondo troppo presto

Sono del ventesimo secolo e ne son fiero.

(N.H., 1954)


CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Dicembre 2013): L’ARTE DI TACERE DELL’ABATE DINOUART



L’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart (1716-1786) pubblicò “L’arte di tacere” a Parigi nel 1771. Trattando del silenzio, l’ecclesiastico fissa principi sul corretto uso della parola. «Il primo grado della saggezza è sapere tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso ....». Saper tacere equivale a sapersi esprimere in maniera corretta e opportuna. Il libro quindi può essere considerato un piccolo sintetico trattato di retorica, anche se saper tacere è spesso indice anche di una corretta visione etica e morale.Il silenzio è necessario in molte occasioni, la sincerità lo è sempre: talvolta si può tacere un pensiero, ma non lo si deve mai occultare. La seconda parte dell’opera riguarda la scrittura. Infatti l’autore distingue due modi di esprimersi tacendo: gestire l’espressione orale e gestire la scrittura. In questo momento storico in cui trionfa il populismo e la demagogia, che si fondano sull’uso disinvolto del linguaggio e sulla banalità suggestionante, il saggio, nonostante sia datato, appare particolarmente attuale

In sintesi, 14 principi riassumono l’arte di tacere:

1. È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio.

2. Vi è un tempo per tacere, come vi è un momento per parlare.

3. Nell'ordine, il momento di tacere deve venire sempre prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente.

4. Tacere quando si è obbligati a parlare è segno di debolezza e imprudenza, ma parlare quando si dovrebbe tacere, è segno di leggerezza e scarsa discrezione.

5. In generale è sicuramente meno rischioso tacere che parlare.

6. Mai l'uomo è padrone di sé come quando tace: quando parla sembra, per così dire, effondersi e dissolversi nel discorso, così che sembra appartenere meno a se stesso che agli altri.

7. Quando si deve dire una cosa importante, bisogna stare particolarmente attenti: è buona precauzione dirla prima a sé stessi, e poi ancora ripetersela, per non doversi pentire quando non si potrà più impedire che si propaghi.

8. Quando si deve tenere un segreto non si tace mai troppo: in questi casi l'ultima cosa da temere è saper conservare il silenzio.

9. Il riserbo necessario per saper mantenere il silenzio nelle situazioni consuete della vita, non è virtù minore dell'abilità e della cura richieste per parlare bene; e non si acquisisce maggior merito spiegando ciò che si fa piuttosto che tacendo ciò che si ignora. Talvolta il silenzio del saggio vale più del ragionamento del filosofo: è una lezione per gli impertinenti e una punizione per i colpevoli.

10. Il silenzio può talvolta far le veci della saggezza per il povero di spirito e della sapienza per l'ignorante.

11. Si è naturalmente portati a pensare che chi parla poco non sia un genio e chi parla troppo, uno stolto o un pazzo: allora è meglio lasciar credere di non essere. geni di prim'ordine rimanendo spesso in silenzio, che passare per pazzi, travolti dalla voglia di parlare.

12. È proprio dell'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.

13. Qualunque sia la disposizione che si può avere al silenzio, è bene essere sempre molto prudenti; desiderare fortemente di dire una cosa, è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla.

14. Il silenzio è necessario in molte occasioni; la sincerità lo è sempre: si può qualche volta tacere un pensiero, mai lo si deve camuffare. Vi è un modo di restare in silenzio senza chiudere il proprio cuore, di essere discreti senza apparire tristi e taciturni, di non rivelare certe verità senza mascherarle con la menzogna.

VALENTINA E ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Settembre 2013): SEGRETI E BUGIE ( Secrets and Lies) GB 1996 Regia. Mike Leigh



Trama:



Hortense, optometrista di colore, ha da poco perso il padre adottivo. Ora che è sola sente il bisogno di cercare la sua madre naturale. Le viene suggerito di rivolgersi ad un'assistente sociale che accetta di darle la sua pratica. La donna, costernata scopre che sua madre è una bianca, si chiama Cynthia ed è una donna triste, fragile e frustrata, con una figlia ventenne infelice e aggressiva, e con un fratello in crisi. Hortense trova il coraggio di telefonarle e di fissare un appuntamento.



Più che un film drammatico nell’accezione canonica del genere, Segreti e bugie potrebbe essere definito a buon diritto una commedia dotata di un implacabile retrogusto drammatico. La storia si sviluppa equamente spartita sui due piani delle protagoniste, ovvero una ragazza di colore da una parte e dall’altra la sua madre naturale, bianca, nevrotica, con relativa famiglia a corredo. Mike Leigh racconta con il pudore e l'apertura necessari, questa storia in un film senza star e senza bellezze, che proprio grazie alla sua portata umana e alla semplice sensibilità del regista ha conquistato la Palma d'oro a Cannes nel 1996 così come il premio per la migliore attrice a Brenda Blethyn che è la superlativa mattatrice e fulcro di tutto. Magistralmente interpreta Cynthia una madre che all’inizio non ricorda di aver abbandonato una neonata concepita in una fugace notte d’amore, ma non per scelleratezza ma solo perché la vita le è piombata addosso con tutto il suo peso, implacabile e difficile. E' una donna che vive disadattata, inquieta, tormentata, piena di ferite e di sensi di colpa, che per un bel po' non si capisce da cosa provengano. E' incapace di vivere e di affrontare anche la minima contrarietà. I rapporti che ha con gli altri sono tesi e pieni di incomprensioni. Poi il regista solleva gradatamente il velo sull'origine di tutto questo disordine, e piano piano i conti cominciano a tornare. La personalità disastrata della donna comincia a ricomporsi e a riordinarsi. Smette di bere e diventa una persona equilibrata e più serena. Le vite degli altri personaggi, benché in misura minore, sono tutte compromesse da conti aperti e ferite del passato. L'origine delle sofferenze di tutti sono appunto i segreti e le bugie che pesano come macigni sulle loro vite. L'idea di essere costretti a mentire per proteggere la serenità propria e altrui è stato uno stupido errore, fonte di molto dolore e incomprensioni. Mike Leigh dimostra di essere un grande cineasta confezionando forse la più bella sequenza del cinema anni 90: il confronto nel bar tra Hortense e Cynthia con una ripresa frontale ma voragini di spazio che si aprono fuori campo solo seguendo gli sguardi delle due protagoniste, chiamate a guardare altrove dove rivedono e rivivono trant’anni di vita non trascorsa insieme, con tutti gli errori, le illusioni e le speranze del caso. Un film bello, che condensa le caratteristiche di una scuola di cinema inglese unica in Europa, rappresentata pure da Ken Loach o Stephen Frears: l'attenzione realistica, l'interesse analitico per la vita quotidiana della gente non ricca né famosa né criminale che soffre e non conta; la narrazione mista di dramma e comicità, emozione e commedia, lo stile documentaristico nutrito e corretto dalla presenza di attori bravissimi; la rinuncia al nichilismo catastrofico, ai finali tragici, alle conclusioni azzeranti, a favore di quel dolente andare avanti raro nello spettacolo ma tipico della realtà. Cristina Giacometti
Pubblicato da ROBERTO R.

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Dicembre 2013): “THE PHANTOM AGONY” dall’album “The phantom agony” degli Epica (Olanda) – 2003

I finlandesi Nightwish e gli italiani Rhapsody Of Fire sono all’apice del Symphonic Metal per originalità ed energia, ma gli olandesi Epica vengono subito dopo, e forse, rispetto a loro, sono ancora più vicini alla musica classica sinfonica. L’anno in corso festeggia i dieci anni di vita della band, a tal scopo è uscito un DVD “RETROSPECT” tratto dal concerto tenutosi ad Eindhoven. Nel dvd una orchestra di settanta elementi che sottolinea la maestosità di un sound che coniuga in maniera strettissima classica e metal; e pur apparendo breve la loro carriera, i 5 album prodotti sono di una ispirata e consistente intensità, riuscendo sempre a mantenere alto il livello artistico. Il lavoro dell’anno scorso, “Requiem for the indifferent” può essere considerato addirittura il migliore mai realizzato.
Il Brano:

“THE PHANTOM AGONY” è la title-track del primo disco, appunto: “The phantom agony” del 2003.

E’ diviso in tre parti.

1. “Impasse of thoughts”

Un tappeto morbido estremamente classico e poco rock, porta l’ascoltatore verso un sentiero che progressivamente si arricchisce di brio e dinamicità. La voce della cantante sussurra in un parlato accennato:

I can't see you, I can't hear you
Do you still exist?
I can't feel you, I can't touch you,
Do you exist?
The Phantom Agony
I can't taste you, I can't think of you,
Do we exist at all?

ROBERTO R. ha detto...

. “Between hope and despair”

Al centro si velocizza il ritmo con i violini che accentrano l’attenzione mentre il coro lirico crea potenza ed enfasi. Alle voci si aggiunge il cantato growl/scream di Mark Jansen (chitarra ritmica) e finalmente entra in scena la voce piena della mezzosoprano Simone Simons.

The future doesn't pass
And the past won't overtake the present
All that remains is an obsolete illusion
We are afraid of all the things that could not be
A phantom agony
Do we dream at night
Or do we share the same old fantasy?
I am a silhouette of the person wandering in my dreams

Tears of unprecedented beauty
Reveal the truth of existence
We're all sadists
The age-old development of consciousness
Drives us away from the essence of life
We meditate too much,
so that our instincts will fade away
They fade away
What's the point of life
And what's the meaning if we all die in the end?
Does it make sense to learn or do we forget everything?

Tears of unprecedented beauty
Reveal the truth of existence
We're all pessimists
Teach me how to see and free the disbelief in me
What we get is what we see, the Phantom Agony


3. Nevermore

La Potenza si stempera in un dolce e malinconico andante, con un finale strumentale lungo che si riallontana dalle caratteristiche metal.

The lucidity of my mind has been revealde in new dreams
I am able to travel where my heart goes
In search of self-realisation
This is the way to escape from our agitation
And develop ourselves
Use your illusion and enter my dream...


Il brano non si incentra sul cantato della cantante, ma nemmeno sul virtuosismo strumentale, quanto invece sulla struttura e sull’atmosfera. La rossa Simone è la frontwoman che però in questa composizione non è il personaggio principale, lasciando molto spazio al cantato corale. La parte più rock si può dire che sia una ritmica chitarrista serrata nei momenti più veloci, ma poi anche nel cantato corrosivo maschile. I testi degli Epica solitamente cercano di essere impegnati e mai futili. Qui il fantasma a cui si accenna è la realtà della vita stessa, che scorre scomparendo; c’è e non c’è, tra ricordi, desideri e il tempo che trascorre. Musicalmente si tratta di una suite di ampio respiro (9 minuti circa), con una preponderante essenza melodica, lontana da sferzate violente, quindi senza risvolti cupi. Anche i momenti più metal non raggiungono mai asprezza o aggressività, nemmeno alla presenza delle vocalizzazioni in growl. Si esprime potenza senza cattiveria e molta intimità sonora. SKY ROBERTACE LATINI


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ROBERTO R. ha detto...

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LA POESIA DEL MESE (Dicembre 2013): L’ALBERO DI NATALE DI NAZIM HIKMET



L’albero di Natale



A sud del golfo di Finlandia la notte
vicino al mare brumoso
l'albero di Natale scintilla
tra oscure torri gotiche
corazze di cavalieri teutoni
e ciminiere di fabbriche
l'albero di Natale
l'albero di Natale canta
sulla piazza bianca di neve
canzoni dell'Estonia
lunghissimo scintillante
pagliuzzato d'oro
l'albero di Natale
tu sei nella palla di vetro rosso
i tuoi capelli son paglia gialla le ciglia azzurre
sono io che l'ho appesa
mettendotici dentro
il tuo collo bianco è lungo e rotondo
ti ho messa nella palla di vetro rosso
con i miei dubbi
con le mie ansietà con le mie parole
le mie speranze le mie carezze
a tutti gli alberi di Natale a tutti gli alberi
a tutti i balconi le finestre i chiodi le nostalgie
ho appeso la palla di vetro rosso.

Nazim Hikmet dicembre 1961 -



Il titolo della poesia che ho scelto per questo mese di dicembre può essere fuorviante e portare il lettore, al primo sguardo, fuori strada. Senza nulla togliere alla tradizione e senza entrare in sterili polemiche di critica letteraria , rimanendo però coerente alla linea di pensiero che contraddistingue le scelte letterarie del ns blog, linea che predilige testi poetici e autori fuori dai circuiti commerciali e della grossa fruizione, ho scelto questo testo di Hikmet. Un testo dove l’albero di Natale è solo un pretesto letterario dal quale parte una sorta di “antropomorfizzazione” dell’albero stesso e delle sue decorazioni. Una poesia dove l’atmosfera natalizia fa da sottofondo ad una struggente lirica d’amore e dove il Natale stesso diventa per il poeta occasione di riflessione sui propri dubbi, le proprie speranze, le proprie ansie. Comunicare è forse l’arte più difficile in cui l’essere umano si sia mai cimentato. Raccontare la propria vita in versi, condensare la nostalgia, il dolore, l’amore, la solitudine, la gioia, e tutta la variegata trama dei sentimenti umani in poche righe: l’arte della poesia è ancora più difficile, tanto più nella contemporaneità di un mondo che scorre veloce, sempre più in fretta verso mete ignote, in cui fermarsi a prestare attenzione alle piccole cose, o immergersi negli abissi interiori equivale a smarrire l’ancora, perdendo la certezza di poter riemergere. La poesia è “un modo di concepire”, scrive Nazim Hikmet in una lettera a Joyce Lussu, amica e traduttrice dei suoi versi. Come dire, la poesia è uno stile di vita, un’attitudine che risiede non già nell’oggetto della poesia, ma negli occhi e nella mente di chi guarda, e scrive quello che vede.

ROBERTO R. ha detto...

Nazim Hikmet (1902-1963) nasce in una famiglia in cui la poesia era una vecchia, gradita ospite fissa: suo nonno paterno era autore di poesie in lingua ottomana, sua madre appassionata divoratrice della poesia francese, da Baudelaire a Lamartine; un clima indubbiamente stimolante per il giovane Nazim, che sin da piccolo ebbe l’opportunità di confrontarsi con l’arte della metrica, ma allo stesso tempo un ambiente contraddittorio e divergente, che metterà l’Hikmet, poeta adulto, davanti alla necessità di conciliare le ristrettezze metrico-formali della poesia scritta in ottomano, lingua assolutamente diversa dal turco parlato, con l’ebbrezza svergognata di versi “maledetti” come quelli di Baudelaire. Una difficoltà di conciliazione in cui si esprime anche tutta la controversia di una situazione storico-politica, a cavallo tra le due guerre mondiali, in cui il nuovo prorompe prepotentemente nel vecchio, sradicando e abbattendo tradizioni millenarie di popolazioni e imperi antichi, come la Turchia, da sempre sospesa sulla linea di confine che separa Oriente e Occidente, e il popolo turco, animato da una conflittualità che si potrebbe definire geografica. Conflittualità patriottica cui Hikmet, non potendo rifuggirne, ha invece tentato di dare voce tramite i suoi versi, frasi d’amore spezzate, monche come un arto perduto in guerra, o lunghi poemi dal vago sapore epico, sempre armoniosi come un melodioso canto di uccelli, o come il fruscio setoso del vento tra le foglie degli alberi. La poesia di Nazim Hikmet è figlia di stridenti contrasti, sociali, ma anche personali: prima il carcere, cui fu condannato per le sue idee comuniste e anti-naziste, poi la censura in patria delle sue opere, infine l’esilio volontario dalla sua terra natia, che neanche da lontano smise di amare.

ROBERTO R. ha detto...

La poesia è matrice e risolutrice di questi contrasti, ne è causa ed espressione, salvezza e schiavitù; attraverso la poesia Hikmet ci racconta un’epoca contraddittoria, dai grandi conflitti mondiali alla guerra di indipendenza turca dalla Grecia, alla nascita del comunismo leninista; epoca che nella sua poesia trova un momento di sintesi pura, grazie all’esigenza (e alla capacità dello scrittore) di dirimere, con uno stile tutto personale, fondato sulla semplicità della parola, usata in modo diretto, quasi prosaico, senza fronzoli, controversie poetiche tra tradizione e innovazione. Sciogliere i nodi problematici della poesia, superare l’opposizione dicotomica tra vecchio e nuovo, equivale a districare i nodi polemici della storia, della cultura e della società; e di questo parla, della vita e della storia, dell’amore (per sua moglie Munevvér, cui è dedicata la famosa raccolta “Lettere dal carcere” e per la patria) e della nostalgia, con purezza invidiabile, la poesia di Nazim Hikmet. Parole semplici, incisive, che permangono oltre la vita, raccontandola, e oltre la morte stessa. Come scrive Joyce Lussu: “Che sia morto, non ha un grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità e infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo e a ritrovarlo”. Ispirato da grandi nomi come Yaya Kemal, Tevfiq Fikret e Vladimir Majakovskij, conosciuto durante i lunghi anni moscoviti, stimato da artisti del calibro di Tristan Tzara, Pablo Picasso e Jean Paul Sartre, tutti firmatari di una petizione in favore della sua scarcerazione (1950), Nazim Hikmet è cantore immortale di un secolo, il ventesimo, che amò senza riserve, nonostante la sua anima antica.

Del resto, il mio secolo non mi fa paura

il mio secolo pieno di miserie e di scandali

il mio secolo coraggioso grande ed eroico.

Non ho mai rimpianto d’esser venuto al mondo troppo presto

Sono del ventesimo secolo e ne son fiero.

(N.H., 1954)


CHIARA PASSARELLA


http://it.wikipedia.org/wiki/Naz%C4%B1m_Hikmet

ROBERTO R. ha detto...


IL LIBRO DEL MESE (Dicembre 2013): L’ARTE DI TACERE DELL’ABATE DINOUART



L’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart (1716-1786) pubblicò “L’arte di tacere” a Parigi nel 1771. Trattando del silenzio, l’ecclesiastico fissa principi sul corretto uso della parola. «Il primo grado della saggezza è sapere tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso ....». Saper tacere equivale a sapersi esprimere in maniera corretta e opportuna. Il libro quindi può essere considerato un piccolo sintetico trattato di retorica, anche se saper tacere è spesso indice anche di una corretta visione etica e morale.Il silenzio è necessario in molte occasioni, la sincerità lo è sempre: talvolta si può tacere un pensiero, ma non lo si deve mai occultare. La seconda parte dell’opera riguarda la scrittura. Infatti l’autore distingue due modi di esprimersi tacendo: gestire l’espressione orale e gestire la scrittura. In questo momento storico in cui trionfa il populismo e la demagogia, che si fondano sull’uso disinvolto del linguaggio e sulla banalità suggestionante, il saggio, nonostante sia datato, appare particolarmente attuale

In sintesi, 14 principi riassumono l’arte di tacere:

1. È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio.

2. Vi è un tempo per tacere, come vi è un momento per parlare.

3. Nell'ordine, il momento di tacere deve venire sempre prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente.

4. Tacere quando si è obbligati a parlare è segno di debolezza e imprudenza, ma parlare quando si dovrebbe tacere, è segno di leggerezza e scarsa discrezione.

5. In generale è sicuramente meno rischioso tacere che parlare.

6. Mai l'uomo è padrone di sé come quando tace: quando parla sembra, per così dire, effondersi e dissolversi nel discorso, così che sembra appartenere meno a se stesso che agli altri.

7. Quando si deve dire una cosa importante, bisogna stare particolarmente attenti: è buona precauzione dirla prima a sé stessi, e poi ancora ripetersela, per non doversi pentire quando non si potrà più impedire che si propaghi.

8. Quando si deve tenere un segreto non si tace mai troppo: in questi casi l'ultima cosa da temere è saper conservare il silenzio.

9. Il riserbo necessario per saper mantenere il silenzio nelle situazioni consuete della vita, non è virtù minore dell'abilità e della cura richieste per parlare bene; e non si acquisisce maggior merito spiegando ciò che si fa piuttosto che tacendo ciò che si ignora. Talvolta il silenzio del saggio vale più del ragionamento del filosofo: è una lezione per gli impertinenti e una punizione per i colpevoli.

10. Il silenzio può talvolta far le veci della saggezza per il povero di spirito e della sapienza per l'ignorante.

11. Si è naturalmente portati a pensare che chi parla poco non sia un genio e chi parla troppo, uno stolto o un pazzo: allora è meglio lasciar credere di non essere. geni di prim'ordine rimanendo spesso in silenzio, che passare per pazzi, travolti dalla voglia di parlare.

12. È proprio dell'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.

13. Qualunque sia la disposizione che si può avere al silenzio, è bene essere sempre molto prudenti; desiderare fortemente di dire una cosa, è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla.

14. Il silenzio è necessario in molte occasioni; la sincerità lo è sempre: si può qualche volta tacere un pensiero, mai lo si deve camuffare. Vi è un modo di restare in silenzio senza chiudere il proprio cuore, di essere discreti senza apparire tristi e taciturni, di non rivelare certe verità senza mascherarle con la menzogna.

VALENTINA E ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Gennaio 2014): THE SUFFERING OF THE INNOCENT (2012) - A symphonic homage and prayer by Kiko Arguello, Avery Fisher Hall

Lincoln Center for the Performing Arts - New York



Dal minuto 53.05 all’ 1.29.00



In un mondo lacerato dalla guerra e dalla violenza nazista, un popolo fra i popoli fu scelto come capro espiatorio. Non era la prima volta, ma fu la prima dove il massacro divenne scientifico (in realtà, cenni di questa mentalità metodologica anti-ebrei si avvertono anche nel vecchio testamento; vedi il “libro di Ester”). Alla base di tale enormità c’è stato il pregiudizio (vedere anche il libro di Rapaccini: “Il pregiudizio religioso sul web”) verso la comunità ebraica che ha tutta una sua specifica peculiarità. Una emarginazione che proviene dalla storia stessa, la quale ha messo sempre l’ebraismo al centro del propria incapacità a relazionare con le diverse culture. Disse Nietzsche: “Se Dio esiste e non aiuta coloro che soffrono è un mostro e se non può aiutarli non è Dio, non esiste”. Dice Kiko: “Dicono che dopo l’orrore di Auschwitzh non si può più credere in Dio. No! Non è vero, Dio si è fatto uomo per prendersi lui la sofferenza degli Innocenti”. Cioè lui stesso innocente. Tanta letteratura, tanto cinema e tanta cultura hanno descritto l’onda antisemita. Kiko Arguello ha voluto portare speranza anche nel terrificante evento dello sterminio. Arguello, il fondatore del Cammino Neocatecumenale, movimento laico cattolico, frutto del Concilio Vaticano Secondo, ha ardito fare cose verso i “fratelli maggiori nella fede”, che altre realtà cattoliche non hanno avuto il coraggio di fare. Fra queste la composizione di un’opera sinfonica dedicata alle vittime dell’olocausto, che in realtà è invece anche dedicata a tutte le persone che soffrono, alle persone innocenti colpite dal male dell’uomo in tutte le sue forme, di cui i campi di concentramento sono il simbolo supremo. Tale sinfonia ha avuto il plauso di molta parte del popolo ebraico, che, al contrario di ciò che comunemente si pensa, è aperto e capace di risorse comunicative interessanti (basti pensare all’autoironia presente in molta loro espressione artistica). E così hanno accolto l’opera di Kiko (il Cammino Neocatecumenale è riuscito anche a costruire un importante edificio di fede cristiana all’interno del territorio israeliano). Il valore di questa sinfonia non è solo artistico, contiene lo spirito di avvicinamento che ormai da tempo la Chiesa Cattolica fa verso gli ebrei. Ed essi ve lo riconoscono, e riconoscono che la chiesa possiede oggi un passo diverso

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ROBERTO R. ha detto...

La sinfonia (circa 35 minuti divisi in 4 parti) :



I Parte: “GETSENAMI”(circa 10 minuti)

L’inizio è estremamente soft, parte con una melodia dolce ma non allegra. Si percepisce una atmosfera leggermente malinconica con una cupezza di fondo. Tale percorso trova il suo apice di tristezza in un sinuoso momento violinistico solista leggermente orientaleggiante che poi si riunisce ad una coralità di violini. Questa morbidezza raggiunge poi un’aria di marcia lenta con l’ingresso del rullante e i cori iniettano un senso di folla in cammino in cui i fiati ne gonfiano il pathos.

fine: 1.03.15



II parte: "LAMENTO" (circa 8 minuti)

Ancora un inizio calmo, ma ancora più tetro. Il clarinetto sostenuto da una chitarra che suona le corde basse, e poi coro rarefatto che amplia la sospensione dell’atmosfera. Una sonorità senza aperture in cui si inserisce un’arpa che stilla note dolorose. Il coro dà quel senso di comunità, di unità nel dolore. E’ una parte interlocutoria, con forte senso di attesa, senza soluzione di continuità; lo scorrere lento di un tempo fluttuante, che non ha direzioni.

Fine 1.11.30



III parte: “PERDONALI/SPADA/SHEMA’”(circa 11 minuti)

Si avvia un sound corposo, con tutta l’orchestra attiva. L’atmosfera si fa più squillante, seppur calda e leggermente maestosa, dove però gli inserti di violoncello e l’arpa continuano a dare segni di oscurità. Poi ci si alza, con anche il coro e la voce solista da baritono per poi ridiscendere nell’oscurità; ma è sempre l’arpa a dare la voce al gocciolare del dolore. Un suono di “silenzio” con la ritmica soffusa delle chitarre preannuncia l’ingresso del canto che da solista diventa subito corale in cui si nomina “La spada che trafigge il cuore di Maria”, segno della sofferenza vissuta. E qui ritorna il ritmo di marcia con i fiati in accompagnamento, intermezzo tra i due momenti corali forti. Subito dopo giunge l’episodio più emotivo e maestoso, che è il cantato di “Shema Israel” (ascolta Israele) che si erge in tutta la sua potenza con il coro, in cui tutto il pubblico si alza in piedi (pubblico fatto anche di ebrei nel video). Questo momento perde alcuni connotati di dolore chiuso, per prendere una sonorità di dolorosa consapevolezza della propria riscossa morale e spirituale.

Fine 1.22.55


ROBERTO R. ha detto...


III parte: “PERDONALI/SPADA/SHEMA’”(circa 11 minuti)

Si avvia un sound corposo, con tutta l’orchestra attiva. L’atmosfera si fa più squillante, seppur calda e leggermente maestosa, dove però gli inserti di violoncello e l’arpa continuano a dare segni di oscurità. Poi ci si alza, con anche il coro e la voce solista da baritono per poi ridiscendere nell’oscurità; ma è sempre l’arpa a dare la voce al gocciolare del dolore. Un suono di “silenzio” con la ritmica soffusa delle chitarre preannuncia l’ingresso del canto che da solista diventa subito corale in cui si nomina “La spada che trafigge il cuore di Maria”, segno della sofferenza vissuta. E qui ritorna il ritmo di marcia con i fiati in accompagnamento, intermezzo tra i due momenti corali forti. Subito dopo giunge l’episodio più emotivo e maestoso, che è il cantato di “Shema Israel” (ascolta Israele) che si erge in tutta la sua potenza con il coro, in cui tutto il pubblico si alza in piedi (pubblico fatto anche di ebrei nel video). Questo momento perde alcuni connotati di dolore chiuso, per prendere una sonorità di dolorosa consapevolezza della propria riscossa morale e spirituale.

Fine 1.22.55



IV parte: “RESURREXIT” (circa 6 minuti)

Un tetro movimento di archi dà inizio ad un procedere ritmato dalle chitarre che suonano quasi come un riff blues. Tutta la parte è molto dinamica; mossa da un’atmosfera ariosa e allo stesso tempo potente, dove il “resurrexit” del coro suona luminoso. I fiati sono i personaggi principali e danno tutto il tono di base che sostiene un andante tonico. Un finale di gloriosa mestosità termina con un infuocato “Alleluja”.
1.23.20-1.29.00

***

Si percepisce in alcuni passaggi il retroterra culturale del compositore che è spagnolo. Sia nella leggera impostazione orientale di alcune arie, sia nel finale ritmico. Cosa che appare maggiormente nitida nei canti che egli ha composto per le liturgie del Cammino, e meno comunque in questa opera sinfonica. Il tragitto emotivo passa soprattutto per una linea di suoni morbidi, soffusi o cupi, ma sempre calmi, dove per questo i momenti di picco corale divengono più esplosivi. L’oscurità della sofferenza viene descritta con questa sensazione di rarefazione. Il male non viene descritto con suoni spezzati o disarmonici, quanto con melodie, che per quanto scure, non diventano il paradigma di una distruzione totale, quanto di una attesa, una attesa in cui c’è la conservazione di un risveglio. Il suono della morte come un suono misterioso, un suono che copre tutto come un tappeto, ma che quando viene alzato fa trovare la possibilità di un significato. Varie sono le implicazioni sonore di origine ebraica. Per esempio le ripetizioni del canto considerando le melodie giudaiche dette “niggunim”. Oppure la tromba coi suoi squilli che nell’ultima parte ricordano gli strumenti che gli ebrei suonavano in un intervallo di quinta. Si possono comunque fare anche riferimenti alle sinfonie occidentali e sentire anche la presenza di tradizioni tipo quella di Ravel. Naturalmente qui l’intento è fortemente religioso, di passaggio di un messaggio che non è nascosto ma in apertissima mostra. E lui non ne fa mistero, in tal senso basta ascoltare le sue parole prima e dopo il concerto. E’ anche una cosa divertente, e vedere come sembra far catechesi cristiana persino ai rabbini presenti che non appaiono assolutamente infastiditi da questo suo atteggiamento (in verità apparentemente molto spontaneo). Dove altri, davanti ad una platea di tal genere avrebbero avuto una certa prudenza diplomatica, Kiko non ha remore; mantenendo però una certa delicatezza. La sinfonia è stata suonata anche davanti ad Auschwitz. Il rabbino Lefkowitz, così ha commentato: “Mi sono commosso. Stare lì, come ebreo, insieme a 12.000 persone e sentire che mi amavano…”

ROBERTO R. ha detto...

. Tra i rabbini vi sono stati anche dei dissensi, e infatti alcuni non hanno partecipato alla serata, pur dandone una critica rispettosa. Dice il rabbino David Rosen, intervistato dall’Osservatore Romano: “Questo evento rappresenta un caso molto emblematico delle difficoltà e dei limiti del dialogo ebraico-cristiano, perché ha scoperto, mettendoli insieme, due punti estremamente sensibili: la Shoah e la storia della Passione. Il paradosso del legame speciale tra ebrei e cristiani è che il punto di collegamento, la figura ebraica di Gesù, è anche il punto di rottura”. Nel video indicato ci sono interventi molto interessanti fatti da rabbini presenti all’evento. Ad ogni modo l’opera composta da Kiko ha una dimensione che pur inserita nel contesto religioso (ma molte musiche classiche del passato lo sono), ha un respiro anche musicalmente riuscito; niente affatto banale, pur nella sua semplicità (non vi sono grandi virtuosismi). Kiko in effetti nasce come artista (pittore e musicista) e solo dopo trova la sua vocazione cristiana. Messa l’arte da parte, l’ha poi ripresa utilizzandola ai fini della fede, e, in questo caso, con un senso artistico che io reputo di buon livello. Io ascolto moltissima musica, e mi è piaciuta proprio dal punto di vista compositivo, non essendovi dentro alcuna incertezza o ingenuità (forse è meglio che Kiko non canti; quel pezzettino lo lasci fare ad altri con migliore ugola).

Nel complesso un’azione artistica seria sia dal punto di vista comunicativo, sia musicale. SKY ROBERTACE LATINI

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ROBERTO R. ha detto...

LA POESIA DEL MESE (Gennaio 2014): UN PAIO DI SCARPETTE ROSSE di Joyce Lussu



Un paio di scarpette rosse

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buchenwald*
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald*



servivano a far coperte per soldati
non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald*



erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono



c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald*
quasi nuove
perchè i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.


Joyce Lussu

ROBERTO R. ha detto...

* Campo di concentramento di Buchenwald - Wikipedia



ROBERTO R. ha detto...


Anche quest’anno dedichiamo il mese di gennaio al ricordo della Shoah. Vi è una strana alchimia che collega la poesia del mese di dicembre 2013 e la poesia di questo gennaio 2014: documentandomi su Nazim Hikmet mi sono imbattuta nei testi poetici della sua più grande traduttrice ed amica, Joyce Lussu. In particolare la poesia “Un paio di scarpette rosse”, forse proprio perché sapevo che in gennaio avrei trattato questo tema. Un altro particolare è stato che nel gennaio 2013 concentrai la mia attenzione sullo sterminio delle donne ebree, in questo caso e con questa poesia ho la possibilità di trattare l’orrore dello sterminio dei bambini. So che è un argomento molto crudo ma è necessario conoscere per non dimenticare. Lo sterminio dei bambini appare oggi come il fenomeno più tragico del nazismo. Fu uno sterminio di massa pianificato e realizzato con zelo e precisione, senza compromessi e senza pietà. Gli atti più terrificanti contro i bambini ebrei furono eseguiti col distacco di uno scienziato che tende ad eliminare biologicamente una specie. I tedeschi eseguirono l’infanticidio di massa, con uno scopo preciso: intendevano colpire il popolo ebraico privandolo delle possibilità di rigenerazione biologica nel futuro più lontano. L’infanticidio di massa fu dunque una parte integrante ed essenziale della cosiddetta “soluzione finale” intesa come lo sterminio fisico totale del popolo ebraico. La guerra dei tedeschi contro il bimbo ebreo cominciava quando esso si trovava ancora nel grembo materno. Infatti, nelle cosiddette “selezioni” ed “azioni” tedesche contro gli ebrei, le prime ad essere assicurate alla morte furono le donne incinte. Tutti i bambini, senza eccezione alcuna d’origine, d’ambiente, di classe erano destinati alla morte con ordine di precedenza nei confronti degli adulti. I bambini furono inevitabilmente, per forza delle cose e per la logica dei piani di sterminio nazisti, le prime vittime delle attività di genocidio. In tutto, si calcola che almeno un milione e mezzo di bambini e ragazzi sia stato ucciso dai nazisti e dai loro fiancheggiatori; di queste giovani vittime, più di un milione erano ebrei, mentre le altre decine di migliaia erano rom (zingari), polacchi e sovietici che vivevano nelle zone occupate dalla Germania, nonché bambini tedeschi con handicap fisici e/o mentali provenienti dagli istituti di cura. Le possibilità di sopravvivenza degli adolescenti compresi tra i 13 e i 18 anni, sia ebrei che non-ebrei, erano invece maggiori, in quanto potevano essere utilizzati nel lavoro forzato.

ROBERTO R. ha detto...

Credo che queste mie poche righe di testimonianza, a ricordo perenne di questa tragedia, siano sufficienti. Voglio ora ricordare la figura di Joyce Lussu e la sua poetica. Joyce Salvadori Lussu nasce a Firenze l’8 maggio 1912. Nel 1924, dodicenne, in seguito alle percosse subite dal padre ad opera degli squadristi fiorentini, lascia l’Italia insieme alla famiglia. Raggiungono la Svizzera, dove Joyce e Max frequentano una scuola gestita da intellettuali pacifisti. Studiando da privatista e lavorando Joyce si iscrive alla facoltà di Filosofia di Heidelberg, in Germania; ma nel 1933 l’avvento del nazismo le impedisce moralmente di proseguire gli studi. Ritorna in Svizzera dai suoi genitori ed entra in contatto con l’organizzazione antifascista Giustizia e Libertà. Partecipando all’attività clandestina incontra per la prima volta l’antifascista sardo Emilio Lussu, leggendario capitano della Prima guerra mondiale. Dopo quel primo incontro avvenuto a Ginevra, i due si ritroveranno solo nel 1939. Tra il 1934 e il 1939 Joyce vive in Africa. Di quegli anni racconterà solo con brevi accenni, evocando la natura africana nelle sue poesie – pubblicate nel volume Liriche, edito con il patrocinio e la recensione di Benedetto Croce – alcune oggi incluse nella raccolta “Inventario delle cose certe”. Solo recentemente, le ricerche della storica Elisa Signori hanno permesso di comprendere quel periodo così poco descritto dalla Lussu. Al suo ritorno in Europa, con Emilio Lussu va a vivere a Parigi.

ROBERTO R. ha detto...

A Marsiglia, Joyce ed Emilio organizzano partenze clandestine; Joyce impara a falsificare documenti d’identità per coloro che devono lasciare l’Europa. Questo impegno conduce la coppia in Portogallo per alcuni mesi. Joyce studia il portoghese, a Lisbona; successivamente, convocati dal War Office inglese, raggiungono insieme l’Inghilterra nel tentativo di avviare un piano insurrezionale per liberare l’Italia dal giogo della dittatura e dall’alleanza nazi-fascista. Vicino a Londra frequenta dei campi di addestramento. Nell’estate del 1944 diventa madre. Negli anni del Fronte Popolare, nel 1951, è insieme a lavoratrici provenienti da ogni parte dell’isola, a Cagliari, per il Primo Congresso delle associazioni differenziate. Invece, pur essendo stata partecipe della fondazione dell’Unione Donne Italiane, nel 1953 se ne distacca perché arriva a considerarla un serbatoio elettorale subalterno, voluto dai partiti di sinistra che, a suo avviso, avrebbero dovuto lavorare di più sull’integrazione e la partecipazione femminile nella politica. Viaggia per l’Europa a seguito del Movimento mondiale per la Pace. A Stoccolma incontra il poeta turco Nazim Hikmet del quale diviene amica e traduttrice, rendendo le sue poesie note in Italia. In Italia si immerge nel fermento studentesco del ’68 e nutre attraverso quei giovani speranze di cambiamento. Tra gli anni Settanta e Ottanta scrive i saggi “Padre padrone padreterno” (1976) e “L’acqua del 2000” (1977). Si occupa di storia locale insieme ad un gruppo di studiosi del Piceno pubblicando due volumi per le scuole de La storia del Fermano. Studia e scrive della Sibilla, l’antica abitante dei Monti Sibillini e delle comunità pre-cristiane che li abitavano e delle divinatrici della Barbagia. Joyce muore a Roma il 4 novembre 1998, all’età di 86 anni. Di sé ha detto:

“Qualcuno mi qualifica come scrittrice e poetessa: mi viene assolutamente da ridere. Mi capita, ogni tanto, di scrivere qualcosa, ma non mi considero una persona dedita a questo. Ero dedita ad altre cose, alla politica, all’etica. All’azione, se vuoi. E la scrittura è per me il semplice veicolo per raccontare cose a un pubblico più vasto. A me piace molto parlare, e credo di riuscirci abbastanza bene. Ecco, il mio scrivere è un parlare a un po’ più di gente.”

CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Gennaio 2014): IL RAZZISMO IN EUROPA. DALLE ORIGINI ALL’OLOCAUSTO di George L. Mosse



Il libro di George Mosse si pone come obiettivo la ricostruzione di una storia del razzismo in Europa con segnata attenzione alle motivazioni che ne hanno generato le specifiche manifestazioni. Da questa ricognizione emerge che l’intolleranza razziale spesso è stata la risposta a problemi contingenti, a paure, a insicurezze, alle inquietudini che determinano gli individui a coalizzarsi contro il diverso annullando la propria individualità nelle logiche perverse del gruppo; nello stesso tempo la mutua solidarietà conferisce conforto ai singoli. La seconda fase del processo di genesi del razzismo è integrata dalla formulazione delle motivazioni storiche, politiche, filosofiche, culturali, pseudo-razionali che confortano le tesi e gli stereotipi che motivano l’ostilità per il diverso. Le intuizioni di George Mosse sono semplici e adattabili ad una molteplicità di contingenze storiche; in particolare hanno un evidente riscontro nella diffusione di quelle congetture che sin dal XVIII secolo hanno incoraggiato il suprematismo bianco, e che ebbero un terreno fertile sia nella cultura popolare, sia negli ambienti intellettuali. Il Nazionalsocialismo fu una degenerazione di questi atteggiamenti, che attecchirono facilmente nella cultura nazionalista tedesca. In questo contesto storico il Nazismo hitleriano appare il risultato di consolidate e diffuse convinzioni basate su dati pseudo-biologici: Hitler sembra essere stato l'erede di un pregresso razzismo di matrice illuministica, che però il Nazismo rafforzò con suggestioni mistiche, occulte e iniziatiche, legate ad un immaginario alimentato dal culto degli Ariani. L’autore individua nelle frustrazioni e nei desideri di rivalsa conseguenti alla sconfitta militare nella Prima Guerra Mondiale, uniti a un clima culturale favorevole a recepire la convinzione di una presunta superiorità dei tedeschi, le cause del successo delle teorie razziste in Germania.

ROBERTO R. ha detto...

Hitler dava particolare rilievo ad una perversa visione della politica demografica; in proposito lo sterminio ebreo sarebbe rientrato nel piano di spopolamento dell’Europa per creare spazio all’espansione del popolo tedesco. Le farneticanti teorie naziste inoltre fecero dell’ebreo un pericoloso nemico, sostenendo che gli appartenenti a quell’etnia, una volta arricchiti, sarebbero stati in grado di influenzare il potere politico contro gli interessi della nazione; quando l’ebreo invece non si arricchiva sarebbe diventato comunista, aspirando anche in questo caso al dominio del mondo. Dopo un’ampia introduzione, il libro si articola in capitoli che evidenziano che il razzismo ha avuto una genesi recente. Solo nell’età moderna infatti cominciarono ad essere elaborate teorie che, enfatizzando in maniera fittizia l'esigenza di comprendere l'origine degli uomini, di classificarli, di interpretarne le differenze somatiche e comportamentali, si ponevano come fine la giustificazione delle pretese di superiorità e di dominio della razza bianca; i sentimenti antiebraici, seppur con pseudo-motivazioni diverse, sono stati invece un costante stereotipo nella storia. Al contrario, nel mondo classico le differenze etniche trovavano fondamento in una diversa cultura piuttosto che nella razza. I ‘barbari’ erano considerati tali dai Greci e dai Romani per motivi culturali e non biologici. Inoltre, sebbene Aristotele giustificava la schiavitù come fatto di natura, essa era determinata dal caso e non da presunte differenze di razza; a conferma, uno schiavo, se affrancato, era considerato una persona libera. Nel Medioevo la superiorità dei cattolici europei era radicata altresì sull’appartenenza religiosa.

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George Lachmann Mosse (Berlino, 1918 – Madison, 1999) è stato uno storico tedesco di origine ebrea, che si è occupato prevalentemente di nazismo. Nel 1937 si trasferì in Gran Bretagna per sfuggire alle persecuzioni razziali: andò nel 1939 negli Stati Uniti, assumendone la cittadinanza nel 1945. Insegnò nelle Università dello Iowa, del Wisconsin e nell'Università ebraica di Gerusalemme.

ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Gennaio 2014): In Darkness (anno 2011)

Regia: Agnieszka Holland

Trama:
Leopold Socha é un operaio che lavora alle fogne della cittadina di Lvov, in Polonia, al tempo dell'occupazione nazista. Un giorno si imbatte in un gruppo di ebrei che cerca di fuggire al proprio destino. In cambio di soldi l'uomo accetta di nasconderli nei cunicoli delle fogne. A lungo andare, quello che era iniziato come un modo per racimolare dei soldi diventa una questione d principio al punto di arrivare a mettere in pericolo la propria vita e quella della sua famiglia, per nascondere quei malcapitati...

Leopold Socha, ispettore fognario nella Leopoli occupata del ’43, ha una moglie e una bambina a cui garantire un piatto caldo e un futuro. Scaltro e intraprendente, ruba nelle case dei ricchi e non ha scrupoli con quelle degli ebrei, costretti nel ghetto e poi falciati dalla follia omicida dei nazisti. Avvicinato da un vecchio compagno di cella, l’ufficiale ucraino Bortnik, gli viene promessa una lauta ricompensa se troverà e denuncerà alla Gestapo gli ebrei sfuggiti ai rastrellamenti. Nascosti undici di loro in un settore angusto delle fognature, in cambio di cibo e silenzio, Leopold ricava profitto e benessere. Un benessere vile come la sua condotta. Ma il tempo della guerra e della sopraffazione, ammorbidisce il suo cuore e lo mette al servizio del prossimo. Tra aguzzini famelici, perlustrazioni, fame, buio, bombardamenti e alluvioni, Leopold riuscirà a salvare uomini, donne e bambine conducendoli fuori dalle tenebre e verso la luce. In Darkness, trasposizione del romanzo “Nelle fogne di Lvov” di Robert Marshall, è dedicato a Marek Edelman, vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia e leader del Bund, il movimento operaio ebraico che lottava per l’autonomia culturale. Il film di Agnieszka Holland indaga il comportamento umano in situazioni limite, affrontando la più grande tragedia del Novecento e richiamando insieme quelle successive, che si sono consumate nell’oblio e nelle derive della noncuranza. Sprofondando letteralmente personaggi e spettatori nelle tenebre, la regista polacca produce un cinema che mentre rievoca la Storia si pone in lotta contro il torpore del presente. In un buio lungo centoquaranta minuti Leopold Socha è la luce che rischiara, il protagonista di una vicenda eccezionale (e reale) connessa alle scelte di chi si sente parte della Storia avvertendo la necessità di rigettarne gli orrori. Con In Darkness il cinema torna a occuparsi della Shoah e della drammatica esperienza dei sopravvissuti, testimoni che si sono misurati con il male assoluto e la cui memoria riempie un vuoto privato e collettivo.

ROBERTO R. ha detto...

mbientato quasi interamente in una città sotterranea, In Darkness trova il suo contrappunto nello spazio urbano emergente e in cui emerge Leopold, traghettatore e corriere sospeso tra il mondo di sotto e quello di sopra, dove giorno dopo giorno la macchina di distruzione perfeziona la sua intenzione. Le fognature di Leopoli esemplificano i percorsi di una ricerca di liberazione, i vicoli ciechi dell’autodistruzione, i bivi della perdizione, un labirinto in cui non è facile fiutare tracce di salvezza. Eroe indiscusso e' la figura di Soha che all'inizio risulta antipatica ma che pian piano si guadagna totalmente la simpatia degli spettatori, con le sue azioni umanitarie e anche disinteressate (memorabili le scene in cui gioca con i bambini, in cui si carica la bambina sulle spalle e la porta in superficie a respirare l'aria pulita), col suo coraggio nello sfidare il regime, lo stato e la polizia militare,muovendosi quasi sempre nell'ombra e rischiando la sua stessa vita per delle persone sconosciute ma verso le quali si sente obbligato.In Darkness e' una pellicola potente, incisiva, struggente e fortemente drammatica che riesce in pieno a coinvolgere lo spettatore e trasmettergli tutte le sensazioni vissute dai protagonisti fino all'ultimo, dove finalmente vengono ''assolti'' e liberati, con la fine della guerra. Una pellicola meritevole, un assoluto capolavoro del cinema europeo, in onore della memoria e di persone normali che si rendono simboli eroici dimostrandosi solidali con i loro concittadini nei momenti piu' cruciali della Storia contemporanea.CRISTINA GIACOMETTI

Pubblicato da ROBERTO R.

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Febbraio 2014): LAST BATTLE OF MY WAR (2013) di Denis “Fergie” Frederiksen (15 maggio 1951 – 18 gennaio 2014)



E’ deceduto, all’età di 62 anni, il famoso cantante Fergie Frederiksen, statunitense di origini danesi. Famoso per la partecipazione ad un solo disco degli osannati Toto; una sola presenza con loro e tanto gli è bastato per passare alla storia dell’AoR (Adult Oriented Rock) e del rock in generale. In effetti splendida voce e quell’album “Isolation” (1984) è ancora uno dei migliori nella discografia Toto. In verità non ho mai amato molto né i Toto né il loro genere (AoR appunto), ma “Isolation” ha molte frecce al suo arco. Molteplici sono state le sue partecipazioni musicali e vari i gruppi formati oltre ad una carriera solista di 4 lavori. In particolare va segnalato che due dei suoi album solisti sono stati pubblicati dopo la scoperta di avere un cancro al fegato e i loro titoli sono indicativi: “Happines is on the road” (2011) ed “Any given moment” (2013). Un uomo che pare abbia combattuto con coraggio la sua battaglia. Le ore passate nello studio di registrazione non sono state fluide, a causa dei medicinali e della sua situazione clinica. Non ha potuto sempre lavorare in modo continuativo, l’impegno fisico non era in grado di reggerlo, ma il suo gruppo di collaboratori racconta della sua voglia di pensare al bello scrivendo canzoni e cantandole.




Il brano: guarda caso il brano che apre la sua ultima produzione s’intitola “Last battle of my war” (L’ultimabattaglia della mia guerra). L’intro appare quello di un a band prog, invece poi si fa tonico in una tensione tutta rock perquanto levigata. Lo stile progressive si sente anche nel ritornello ed in altri passaggi ma certo rimane nel solco del metal melodico. La song è accompagnata da chitarre, tastiere, pianoforte alla rock’n’roll e cori che mantengono tutto il tempo una notevole vivacità. La composizione risente di enfatizzazioni stile Asia o Yes più commerciali, ma ha il piglio arioso della melodia mista all’energia del rock verace. Il ritornello si alza e il ritmo si mantiene incalzante, anche l’assolo sferra una stoccata aggressiva, ma è proprio solo una veloce stoccata, troppo breve.


ROBERTO R. ha detto...


Ecco il testo:
Climbing the highest mountain
Forgive me, hold you twice but hold me down
I know I can't reach that peak above me
And watch myself from above
Even if you die
The spirit carries on
Only if you try
To be the love, hold the love
All your soul
Run the darkest
Fighting the last battle of my war
Finding on the strength to carry on
I live today and there's no tomorrow
Hold the pain it's my own victory
Last battle of my war
I need to find the piece of mind
To forget those who try to keep me down
I know I can't be a better human being
And watch my cartage from above
Even if you die
The spirit carries on
Only if you try
To be the love, hold the love
All your soul
Run the darkest
Fighting the last battle of my war
Finding on the strength to carry on
I live today and there's no tomorrow
Hold the pain it's my own victory
Last battle of my war
Even if you die
The spirit carries on
Only if you try
To be the love, hold the love
All your soul
Run the darkest
Fighting the last battle of my war
Finding on the strength to carry on
I live today and there's no tomorrow
Hold the pain it's my own victory
Last battle of my war
Last battle of my war

Da questa canzone è stato tratto il video ufficiale. E’, secondo me il miglior pezzo dell’album, ma non è solo questo, è proprio invece una bella canzone di per se stessa, e merita più dell’album in cui è inserita. Inoltre la voce non sembra quella di un malato di tumore, è limpida, pulita e, alla fine, stupenda come sempre. Nella mia recensione sulla rivista On-Line “Tempi Duri” avevo fatto una critica sfavorevole al suo album e anche per quello del 2011 non avevo dato commenti positivi, infatti se andate al post 143 di questo blog vedrete che lo avevo sistemato all’88 posto della mia classifica del 2011 con voto 6 (col commento: “acqua frizzante solo a volte con le bollicine”), mentre quello del 2013 l’ho alzato di mezzo punto, ma senza potermi stupire. Non consideravo Fergie un grande artista dal punto di vista compositivo, piuttosto un bravo esecutore con la verve giusta. In quanto artista minore ha però saputo sempre tenere alta la testa ed è riuscito a non rimanere troppo statico, insomma va considerato qualcosa più di un mero comprimario. Del resto la sua voce è un valore aggiunto reale.



Link della mia recensione:

http://www.tempiduri.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=818:any-given-moment&catid=33&Itemid=158

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Febbraio 2014): Camillo Sbarbaro –
Padre, se anche tu non fossi il mio




Padre, se anche tu non fossi il mio

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
Camillo Sbarbaro dalla raccolta “Pianissimo” – anno 1914

ROBERTO R. ha detto...

La scelta di questa poesia di Camillo Sbarbaro nasce da una serie di coincidenze di cui ebbi già modo di parlare tempo fa. Coincidenze legate alle concatenazioni e agli enigmi junghiani. Abbiamo dedicato il mese di gennaio alla Shoà, il giorno della memoria ricorre il 27 gennaio, mio padre è nato il 27 gennaio 1921. Partecipò alla seconda guerra mondiale e fu prigioniero dei tedeschi in un campo polacco. Da piccola mi raccontò episodi che rimarranno scolpiti nel mio cuore e nella mia mente per sempre. Ho voluto quindi omaggiare la memoria di mio padre, scomparso prematuramente anni or sono, e riportare all’attenzione un poeta a torto poco studiato nelle scuole. Ed ecco Camillo Sbarbaro con una lirica semplice, d'amore e di profondo affetto. Il sentimento che il poeta prova nei confronti di suo padre prelude da quell'indissolubile legame di sangue, perché:"padre, se anche tu non fossi il mio, per te stesso egualmente t'amerei". L'affetto è rivolto innanzitutto all'uomo, a quella persona che egli amerebbe e ammirerebbe comunque. Dolci sono i ricordi d'infanzia legati al genitore, come quando comunicò ai figli di aver trovato una viola. Un piccolo gesto, questo, carico d'amore e di sensibilità. Il poeta riscopre il padre, e lo riscopre più che nella sua veste di genitore, nella sua veste di uomo. Una persona con sentimenti puri e sinceri, descritta da Sbarbaro in profondità. Gli episodi d'infanzia raccontati servono a rendere l'immagine di un uomo ricco di umanità., sensibile e dolce quando non trova il coraggio di punire la figlia per una malefatta:"l'avviluppavi come per difenderla da quel cattivo che eri tu prima". Ecco così che la bambina viene rassicurata dalle forti braccia paterne, piuttosto che essere punita dallo stesso. La lirica ha la struttura di un colloquio con il padre, versi confidenziali e sinceri, sentimenti puri manifestati apertamente. Tutto ruota attorno ad una ferma e vera convinzione:

ROBERTO R. ha detto...

"Anche se fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t'amerei". Il poeta usa degli endecasillabi sciolti, raggruppati in tre strofe di diversa lunghezza. Camillo Sbarbaro, nacque nel 1888 a S. Margherita Ligure. Si dedicò agli studi letterari, così, oltre ad essere un poeta ed uno scrittore, fu insegnante di latino e greco. Ma la sua fama fu data anche dal fatto di essere un importante erborista. Nel 1951 si trasferì a Spotorno e lì rimase fino alla morte avvenuta nel 1967. In 'Pianissimo' Sbarbaro è testimone della crisi dell'uomo del primo Novecento. Venuta meno ogni certezza, scomparso ogni punto fermo, si è disorientati innanzi la realtà. La solitudine e la diffidenza diventano un'amara verità. A questo destino l'uomo non può opporsi, ecco perché deve accogliere la vita, e i colori da essa proposti, con assoluta rassegnazione. Tra le sue raccolte di poesie ricordiamo Resine (1911), Pianissimo (1914) e Rimanenze ( 1955). Oltre le poesie, è fondamentale ricordare la produzione in prosa di Sbarbaro. Trucioli ( 1948) è una fra le raccolte in prosa del poeta. Sbarbaro visse con semplicità, riflessivo e attento ai dolci sentimenti. Dimenticato spesso dalla critica fu un grande maestro capace di rendere immagini profonde con parole semplici. Siamo infatti in presenza dell'essenzialità espressiva, non cadendo mai tuttavia nella banalità. Per conoscere da vicino la complessa e multiforme personalità di Camillo Sbarbaro, poeta di origini liguri e come ho già detto ingiustamente dimenticato dal grande pubblico, si deve entrare nel mondo delle cose semplici, i profumi e la bellezza della natura, lasciandosi trasportare dai suoi versi.

ROBERTO R. ha detto...

A differenza di altri scrittori vociani,( furono definiti vociani quegli scrittori di prosa e poesia che durante il primo ‘900 dimostrarono il desiderio di provare una nuova sperimentazione di linguaggio che superasse la tradizione dell’800) che vanno alla ricerca di un linguaggio nuovo, espressivo e ricco di metafore ardite e audaci, espresso in forme stilistiche nuove, la scelta poetica di Sbarbaro premia gli endecasillabi sciolti, (come il Leopardi dei Grandi idilli), e promuove un’espressività scarna e ridotta all’essenziale. Camillo Sbarbaro non amava gli elogi, non aspirava a diventare un grande poeta acclamato, lui che guardava il mondo con gli occhi di un bambino e che per passione faceva collezione di licheni espressione di adattamento estremo della natura alle condizioni più proibitive. La natura e le sue molteplici manifestazioni furono oggetto di studio, infatti la sua natura di botanico scrupoloso lo portava a dedicarsi con lo stesso ardore al mestiere poetico. Anche Eugenio Montale ne rimase così colpito da dedicargli queste parole «La parola ha nello Sbarbaro le stimmate della propria genesi dolorosa e necessaria. E dacché i poeti si riconoscono da quest'ultimo comune carattere, che manca alla quasi universalità degli scrittori, è lo Sbarbaro non pure artista, ma poeta». CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Febbraio 2014): IL KITSCH. ANTOLOGIA DEL CATTIVO GUSTO di Gillo Dorfles



Uno dei libri letti che ricordo con più piacere è il saggio “Il kitsch. Antologia del cattivo gusto”, edito da Mazzotta nel 1968; probabilmente l’autore, Gillo Dorfles, è il primo critico che ha elaborato il concetto di kitsch in tutte le sue articolazioni estetiche e sociali. Per Dorfles alcuni capolavori della storia dell’arte, come il Mosé di Michelangelo e la Gioconda di Leonardo, sono “divenuti emblemi del kitsch perché ormai riprodotti trivialmente e conosciuti, non per i loro autentici valori, ma per il surrogato sentimentale o tecnico dei loro valori”. Infatti “…l’industrializzazione culturale - afferma Dorfles - estesa al mondo delle immagini artistiche, ha condotto con sé un’esasperazione delle tradizionali distinzioni tra i diversi strati socioculturali. La cultura di massa è venuta ad acquistare dei caratteri assai diversi dalla cultura d’élite, e ha reso assai più ubiquitario e trionfante il kitsch dell’arte stessa.” Nel libro alcuni studiosi esaminano molti aspetti del kitsch, dalle riproduzioni in serie di opere d’arte alla musica di largo consumo, dal linguagguo del cinema a quello della pubblicità, dall’architettura e il design al kitsch religioso. Alcuni artisti hanno effettuato una ricognizione su noti capolavori, per elaborarli in maniera dissacrante e provocatoria ed ironica: un noto esempio è ‘L.H.O.O.Q.’ di Duchamp (1919), versione della Gioconda di Leonardo con barba e baffi. Il libro contiene i contributi di studiosi come Herman Broch e Clement Greenberg, che avevano già affrontato in passato questo tema in loro publicazioni intuendo gli aspetti polivalenti di questa tendenza, che nei decenni successivi avrebbe influenzato alcune correnti artistiche e la cultura di massa. Come può essere definito il kitsch? Per Dorfles la traduzione tedesca “cattivo gusto” non è esaustiva. Un’enciclopedia tedesca lo definisce “operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (erotici, politici, religiosi, sentimentali)”. Anche Umberto Eco ha dedicato al tema un capitolo in ‘Apocalittici e integrati’ nel 1964; tuttavia solo Dorfles ha fatto del kitsch un riferimenti centrale della successiva cultura, ed il libro, che sviluppa questa tesi, è stato particolarmente apprezzato anche all’estero, nelle versioni in altre lingue. Il kitsch, prima di diversificarsi in tante forme, tutte affrontate dal saggio, ha due origini: quella spontanea e inconsapevole, rappresentata da oggetti turistici come la riproduzione della gondola di Venezia, oppure il Santo Padre dentro una conchiglia, e quella volontaria, integrata dagli oggetti d’arte che che sublimano in maniera ironica e irriverente, ma artisticamente raffinata e apprezzabile le icone della cultura di massa. ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Febbraio 2014): MELANCHOLIA - Regia Lars von Trier 2011



Trama: dopo le nozze tra Michael e Justine, quest’ultima cade in depressione e la sorella Claire la accoglie a casa sua per assisterla. Nel frattempo un misterioso pianeta minaccia di entrare in collisione con la Terra.



In attesa di Nymphomaniac, Melancholia può considerarsi il secondo capitolo di una nuova trilogia del regista danese Lars von Trier. Due anni dopo la straziante sincerità di Antichrist in cui il regista, in balia di una forte depressione, mette a nudo la sua anima e il suo senso di colpa verso le donne, Melancholia è il film della pacificazione, della cessazione del dolore e della vana ricerca di un senso della vita. Il film su cui aleggia la presenza del padre spirituale Andrej Tarkovskij, ha al centro della narrazione il malessere, la fine del mondo e la nostra solitudine nell’universo con la consapevolezza che la malattia e il dolore cesseranno per sempre con l’evento definitivo che nessuno potrà raccontare. Contrariamente alle accuse di parte della critica di misoginia, Lars von Trier si identifica ancora una volta nel personaggio femminile ed ottiene dalle due attrici protagoniste Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst una prova attoriale altissima. Il rimanente cast è pur sempre importante basti citare Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling e John Hurt. (Charlotte Gainsbourg, Kirsten Dunst e Bjork sono state premiate con la Palma d’oro a Cannes quali migliori attrici per un film di Lars von Trier). Melancholia è un film immerso “nell’abisso del romanticismo tedesco” e riassunto negli splendidi tableaux vivants dell’overture sulla musica tragica e sublime del Tristano e Isotta di Wagner congelati nell’attimo precedente all’ultimo in cui tutto cesserà di esistere. E’ un film pervaso dalla nostalgia dei pre-raffaelliti e percorso dalle sagome scure dei Cacciatori nella neve di Bruegel perché l’arte ovvero il cinema per Lars von Trier “ è l’unico mezzo che abbiamo per illuminare la notte dell’anima e superare la nostra umana finitezza”. Anche questo film è diviso in capitoli che portano i nomi delle protagoniste: Justine e Claire. La prima parte pervasa da una artefatta animazione lascia il posto alla quiete di una lacerante attesa della fine ove resteranno solo le donne a testimoniare la conclusione (un bambino maschio che non crescerà e quindi non potrà arrecare danno). Allo spettatore non resta che abbandonarsi alla vertigine di un cinema capace di trasformare la fine di tutto nel momento più glorioso. CRISTINA GIACOMETTI

ROBERTO R. ha detto...

BRANO DEL MESE (Marzo 2014): NON MI ROMPETE - IL BANCO DEL MUTUO SOCCORSO



“Francesco Di Giacomo, la tua delicata voce è stato un dono che chi ha saputo godere non dimenticherà….ed io l’ho goduta”. E’ la frase con cui voglio salutare un cantante che ha segnato la storia della musica italiana, quella di spessore e di alto valore artistico. Poca attenzione ha ricevuto la notizia della morte (a 66 anni) da parte dei media che spesso non danno spazio all’arte vera. Per omaggiarlo mio fratello mi ha suggerito il brano “Non mi rompete”, che ci aiuta a immaginare un uomo che dorme e che sogna la bellezza. E il carro ora, dopo il tragico evento, fa pensare ad un carro funebre che va in cielo. Ho accolto il suggerimento per me azzeccato.



TESTO:

musica: V. Nocenzi (tastierista)

testo: F. Di Giacomo(cantante), V. Nocenzi


Non mi svegliate ve ne prego
ma lasciate che io dorma questo sonno,
sia tranquillo da bambino
sia che puzzi del russare da ubriaco.
Perché volete disturbarmi
se io forse sto sognando un viaggio alato
sopra un carro senza ruote
trascinato dai cavalli del maestrale,
nel maestrale... in volo.

Non mi svegliate ve ne prego
ma lasciate che io dorma questo sonno,
c'è ancora tempo per il giorno
quando gli occhi si imbevono di pianto,
i miei occhi... di pianto.



La musica è un progressive-folk di circa 5 minuti che inizia subito con arpeggio e voce, e proprio la voce è un dolce andamento che galleggia leggero. Tra la parte cantata iniziale e quella finale si frappone un momento accelerato sorretto da una chitarra ritmica acustica su cui si pone il vocalizzo che sul finale viene ripreso a doppia voce, quella del cantante e una corale sottostante più acuta (forse di Nocenzi), che rende più rarefatta l’atmosfera, azione ariosa intensificata da un assolo di sintetizzatore molto in stile prog. Un pezzo semplice ma intrigante che rimane facilmente impresso nell’ascoltatore. Non si tratta di ballata triste, quanto di un frizzo leggiadro, che solo dopo la morte del cantante può colorarsi di malinconia per chi ha amato il Banco. Dal punto di vista poetico interessante la descrizione che mette insieme tre elementi in una brevissima frase, associando i due sensi di olfatto e udito con la figura dell’ubriaco, che rende l’idea penetrante di una immagine forte, in contrapposizione al suono morbido del cantato e all’accenno precedente del bambino.

L’album che conteneva questa song esprimeva una protesta contro la guerra. Divenne la prima canzone inserita in un 45 giri. Francesco (22.08.1947 - 21.02.2014) è deceduto per uno scontro frontale tra due auto; pare che abbia avuto un malore mentre era alla guida della sua (l’altra persona coinvolta non ha riportato per fortuna danni gravi). Nato in Sardegna, ha vissuto gli anni d’oro del progressive-rock italiano essendone personaggio principale con la sua band: il mitico BANCO del MUTUO SOCCORSO, che con la PFM può essere considerata il meglio del meglio, anche a livello internazionale. Partecipanti di quella scena anni ’70 di cui sono stati creatori. Ben 18 album da studio dal 1972 al 1997. Sky Robertace Latini

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Marzo 2014): Il Signore di fronte - Il Signore nel cuore - Il Signore sognato - Il Signore intoccabile - La Signora dei baci - liriche di VIVIAN LAMARQUE



Il Signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.

Alla loro destra/sinistra c'era una finestra, alla loro sinistra/destra c'era una porta.

Non c'erano specchi, eppure in quella stanza, profondamente, ci si specchiava.



Il Signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.

Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie

le era entrato nel cuore.

E lì cosa faceva?

Stava.

Abitava il suo cuore come una casa.



Il Signore sognato

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.

Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.

E nella realtà?

La realtà non c'era, era abdicata.

Splendidissima regnava la vita immaginata.



Il Signore intoccabile

Nei sogni baciabilissimo

intoccabile come un filo scoperto nella realtà

era quel signore.

Allora come fare?

Bastava confondere un poco sogno e realtà

cancellare con una bianca gomma

l'inutile linea di confine.



La Signora dei baci

Una signora voleva tanto dargli dei baci

non dico tanti, anche solo sette otto

(mila). Invece era proibito perciò non glieli dava.

Se però non fosse stato proibito glieli avrebbe dati tutti

dal primo all'ultimo.

A cosa servono i baci se non si danno?

Vivian Lamarque

da Il Signore d’oro - anno1986

da Poesie dando del lei - anno 1989

da Il Signore degli spaventati - anno 1992 - Premio Montale - prefazione di Giovanni Giudici

trilogia dedicata all'amore transferale per il suo analista junghiano, il Dott. B.M.

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Marzo 2014): Il Signore di fronte - Il Signore nel cuore - Il Signore sognato - Il Signore intoccabile - La Signora dei baci - liriche di VIVIAN LAMARQUE



Il Signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.

Alla loro destra/sinistra c'era una finestra, alla loro sinistra/destra c'era una porta.

Non c'erano specchi, eppure in quella stanza, profondamente, ci si specchiava.



Il Signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.

Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie

le era entrato nel cuore.

E lì cosa faceva?

Stava.

Abitava il suo cuore come una casa.



Il Signore sognato

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.

Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.

E nella realtà?

La realtà non c'era, era abdicata.

Splendidissima regnava la vita immaginata.



Il Signore intoccabile

Nei sogni baciabilissimo

intoccabile come un filo scoperto nella realtà

era quel signore.

Allora come fare?

Bastava confondere un poco sogno e realtà

cancellare con una bianca gomma

l'inutile linea di confine.



La Signora dei baci

Una signora voleva tanto dargli dei baci

non dico tanti, anche solo sette otto

(mila). Invece era proibito perciò non glieli dava.

Se però non fosse stato proibito glieli avrebbe dati tutti

dal primo all'ultimo.

A cosa servono i baci se non si danno?

Vivian Lamarque

da Il Signore d’oro - anno1986

da Poesie dando del lei - anno 1989

da Il Signore degli spaventati - anno 1992 - Premio Montale - prefazione di Giovanni Giudici

trilogia dedicata all'amore transferale per il suo analista junghiano, il Dott. B.M.

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Marzo 2014): Il Signore di fronte - Il Signore nel cuore - Il Signore sognato - Il Signore intoccabile - La Signora dei baci - liriche di VIVIAN LAMARQUE



Il Signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.

Alla loro destra/sinistra c'era una finestra, alla loro sinistra/destra c'era una porta.

Non c'erano specchi, eppure in quella stanza, profondamente, ci si specchiava.



Il Signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.

Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie

le era entrato nel cuore.

E lì cosa faceva?

Stava.

Abitava il suo cuore come una casa.



Il Signore sognato

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.

Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.

E nella realtà?

La realtà non c'era, era abdicata.

Splendidissima regnava la vita immaginata.



Il Signore intoccabile

Nei sogni baciabilissimo

intoccabile come un filo scoperto nella realtà

era quel signore.

Allora come fare?

Bastava confondere un poco sogno e realtà

cancellare con una bianca gomma

l'inutile linea di confine.



La Signora dei baci

Una signora voleva tanto dargli dei baci

non dico tanti, anche solo sette otto

(mila). Invece era proibito perciò non glieli dava.

Se però non fosse stato proibito glieli avrebbe dati tutti

dal primo all'ultimo.

A cosa servono i baci se non si danno?

Vivian Lamarque

da Il Signore d’oro - anno1986

da Poesie dando del lei - anno 1989

da Il Signore degli spaventati - anno 1992 - Premio Montale - prefazione di Giovanni Giudici

trilogia dedicata all'amore transferale per il suo analista junghiano, il Dott. B.M.

ROBERTO R. ha detto...


LA POESIA DEL MESE (Marzo 2014): Il Signore di fronte - Il Signore nel cuore - Il Signore sognato - Il Signore intoccabile - La Signora dei baci - liriche di VIVIAN LAMARQUE



Il Signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.

Alla loro destra/sinistra c'era una finestra, alla loro sinistra/destra c'era una porta.

Non c'erano specchi, eppure in quella stanza, profondamente, ci si specchiava.



Il Signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.

Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie

le era entrato nel cuore.

E lì cosa faceva?

Stava.

Abitava il suo cuore come una casa.



Il Signore sognato

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.

Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.

E nella realtà?

La realtà non c'era, era abdicata.

Splendidissima regnava la vita immaginata.



Il Signore intoccabile

Nei sogni baciabilissimo

intoccabile come un filo scoperto nella realtà

era quel signore.

Allora come fare?

Bastava confondere un poco sogno e realtà

cancellare con una bianca gomma

l'inutile linea di confine.



La Signora dei baci

Una signora voleva tanto dargli dei baci

non dico tanti, anche solo sette otto

(mila). Invece era proibito perciò non glieli dava.

Se però non fosse stato proibito glieli avrebbe dati tutti

dal primo all'ultimo.

A cosa servono i baci se non si danno?

Vivian Lamarque

da Il Signore d’oro - anno1986

da Poesie dando del lei - anno 1989

da Il Signore degli spaventati - anno 1992 - Premio Montale - prefazione di Giovanni Giudici

trilogia dedicata all'amore transferale per il suo analista junghiano, il Dott. B.M.

ROBERTO R. ha detto...

Si parla spesso di contemporaneità, termine oramai entrato nell’uso comune del nostro linguaggio. Ho voluto quindi per questo mese di marzo, porre all’attenzione una delle voci più autorevoli e amate della poesia contemporanea italiana: Vivian Lamarque. Nata a Tesero (Trento) nel 1946, a nove mesi cambia città e famiglia, a quattro anni perde il secondo padre, a dieci scopre di avere due madri e scrive le prime poesie. Dall'età di nove mesi vive a Milano, dove ha insegnato per molti anni. Ha lavorato come insegnante e tradotto Valéry, Baudelaire, Prévert, La Fontaine, Céline, Grimm e Wilde. Fa parte della Giuria Nazionale di Diaristica. Su Sette, inserto settimanale del Corriere della Sera, ha tenuto la rubrica Gentilmente, raccolta poi in volume da Rizzoli. La sua attività artistica è assai poliedrica: la sua prima raccolta poetica, Teresino, ha vinto nel 1981 il Premio Viareggio Opera Prima. Tra gli altri successivi premi, il Montale (1993), il Pen Club (1996), il Camajore (2003), l'Elsa Morante (2005), il Cardarelli-Tarquinia (2006). Autrice anche di molte fiabe, ha ottenuto il Premio Rodari (1997) e il Premio Andersen (2000). Gran parte della sua produzione poetica è stata raccolta nell'Oscar Mondadori Poesie 1972-2002. Questi brevi cenni biografici possono essere utili per comprendere più compiutamente la sua poetica, definita da molti lettori e critici, come pervasa da un incantato stupore. Le sue poesie sono piccoli, deliziosi gioielli di armonica dolcezza, a tratti con uno stile fiabesco reso molto bene dall'uso dei tempi, dei verbi e degli aggettivi. Non è difficile notare come la poetessa avvicina al soggetto della poesia aggettivi in forma vezzeggiativa, quasi a creare un insolito ambiente infantile. È come trovarsi a vedere brevi istanti di situazioni, flash di pensiero. Generalmente di contenuta lunghezza, quasi piccole frasi dall'aria tenera e semplice. Alcune poesie sono dedicate al trauma dell'adozione e al momento in cui scopre di avere due madri. L'argomento, che evidentemente ha portato l'autrice a soffrire e ad affrontare un'analisi, viene sempre trattato con un tratto morbido nonostante la delusione palese.


ROBERTO R. ha detto...

A nove mesi la frattura
la sostituzione il cambio di madre
Oggi ogni volto ogni affetto
le sembrano copie cerca l'originale
in ogni cassetto affannosamente.

Mangiavo dormivo
facevo la brava-bambina
per conquistarti "mammina".
Corteggiamento vano
a nove mesi mi hai presa per mano
mi hai lasciata a Milano.

A volte, anche una frase semplice, detta con il giusto tono, se trasmessa in modo carezzevole, ha un sapore raffinato, usando parole comuni.

Tienimi ancora un po' preziosa
mangiami
a Natale.

Sto ferma immobile:
sono commossa di te.

L'amore mio la prima volta che è un po' distratto
me lo prendo e me lo porto via.

ROBERTO R. ha detto...

E poi c'è la trilogia dedicata al dottore B.M., il suo analista junghiano. Attraverso le sue parole, si legge un carico di ironia non da poco, condita da una trasparente adorazione, forse una grande stima o un latente innamoramento. Queste poesie sono essenzialmente distillati di tenerezza, gocce di sentimenti discreti, frammenti eleganti di desideri, domandine irriverenti e birichine. Curiosa infatti è l'abitudine di frapporre punti interrogativi tra un verso e l'altro. Il risultato profuma di infanzia, di carezze, di occhiolini. È come se ci fosse un dialogo tra cuore e cervello, tra autrice e lettore. Un dialogo intriso di conferme, di spiegazioni o anche solo di ripetizioni, che danno ritmo e brio al componimento. Attraverso una grazia vellutata Vivian Lamarque affronta argomenti dolorosi e dedica con infinita sicurezza e comprensione parole precise in poesie che portano i nomi di persone amate. Non manca di colorare ogni passaggio, anche quelli che potrebbero essere più foschi ed è speciale nel raccontare le emozioni, nell'augurare cose buone, nell'accompagnare sospiri e frasi, nell'accatastare profumi e chiarori. Qualche critico dice che la portata di dolcezza contenuta può essere paragonata ad uno “zuccherificio” facilmente attuabile da qualsiasi bambino. Per taluni è sopravvalutata, una poetessa che dispone in finte rime e allitterazioni delle riproduzioni di vignette reali, paesaggi di fiaba ed emozioni che si fanno danzate. Per me la poetica di Vivian Lamarque è immediata e si comprende subito, poi però resta attaccata addosso facendomi rimuginare sull’esistenza peculiare delle semplici cose, dove la vita frettolosa inciampa. E’ una poesia che non mi lascia mai da sola e come una carezza sepolta nel tempo, sa far riaffiorare le impronte dei sorrisi più belli dell’innocenza. CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

E poi c'è la trilogia dedicata al dottore B.M., il suo analista junghiano. Attraverso le sue parole, si legge un carico di ironia non da poco, condita da una trasparente adorazione, forse una grande stima o un latente innamoramento. Queste poesie sono essenzialmente distillati di tenerezza, gocce di sentimenti discreti, frammenti eleganti di desideri, domandine irriverenti e birichine. Curiosa infatti è l'abitudine di frapporre punti interrogativi tra un verso e l'altro. Il risultato profuma di infanzia, di carezze, di occhiolini. È come se ci fosse un dialogo tra cuore e cervello, tra autrice e lettore. Un dialogo intriso di conferme, di spiegazioni o anche solo di ripetizioni, che danno ritmo e brio al componimento. Attraverso una grazia vellutata Vivian Lamarque affronta argomenti dolorosi e dedica con infinita sicurezza e comprensione parole precise in poesie che portano i nomi di persone amate. Non manca di colorare ogni passaggio, anche quelli che potrebbero essere più foschi ed è speciale nel raccontare le emozioni, nell'augurare cose buone, nell'accompagnare sospiri e frasi, nell'accatastare profumi e chiarori. Qualche critico dice che la portata di dolcezza contenuta può essere paragonata ad uno “zuccherificio” facilmente attuabile da qualsiasi bambino. Per taluni è sopravvalutata, una poetessa che dispone in finte rime e allitterazioni delle riproduzioni di vignette reali, paesaggi di fiaba ed emozioni che si fanno danzate. Per me la poetica di Vivian Lamarque è immediata e si comprende subito, poi però resta attaccata addosso facendomi rimuginare sull’esistenza peculiare delle semplici cose, dove la vita frettolosa inciampa. E’ una poesia che non mi lascia mai da sola e come una carezza sepolta nel tempo, sa far riaffiorare le impronte dei sorrisi più belli dell’innocenza. CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Marzo 2014): CHIARA D'ASSISI - DACIA MARAINI

Il libro è un'interpretazione molto suggestiva ed interessante del percorso spirituale di Chiara d'Assisi. Il presupposto da cui parte l'analisi di Dacia Maraini è che anche nella santità esisteva ai tempi di Chiara e Francesco una discriminazione fra uomo donna. Per la donna santità significava clausura, cioè rifiuto del mondo; per l'uomo c'erano i doveri dell'apostolato e dell'evangelizzazione, ovvero la Santità era nel mondo; poi il Concilio Vaticano II alcuni secoli dopo, estenderà questa possibilità a tutti gli uomini - e non solo a chi scegliesse la via della spiritualità, dell'ascetismo e del rifiuto della mondanità - attraverso la così detta 'vocazione universale' alla Santità. Dacia Maraini finge di vivere accanto a Chiara; sembra esserci in contrasto fra la scrittrice che si serve della parola per trasmettere il suo messaggio e Chiara che, pur volitiva e intelligente, non può comunicare con lo strumento più naturale, la parola; anche per questo vive all'ombra di Francesco. La Santità impone il silenzio, soprattutto ad una donna; Gesù aveva già ammonito nel discorso della montagna: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 33-37). Sembra che questo valga ancor più per una donna. Analogamente al 'matto' di Assisi, anche Chiara, bella, nobile, destinata ad un ottimo matrimonio, era avviata ad un facile futuro; ma lei, sulle orme di quel giovane originale dalle orecchie a sventola, sceglierà la via di un esistenza rigida e carceraria, optando per la libertà che solo la povertà assoluta può assicurare. Questo è il senso della sua disobbedienza: scegliere, anche attraverso un silenzio concludente. In questo Dacia Maraini inserisce in maniera garbata una vena di polemico femminismo. Allora, come in parte oggi, per una donna è più difficile pensare, scegliere una via diversa rispetto a quella che la normalità delle cose le riserverebbe, in una parola è difficile disobbedire, anche se questa è la via della santità. Il rifiuto di Chiara rispetto a quello di Francesco - fa capire Dacia Maraini - è meno eclatante, ma più rivoluzionario. L'elogio della disobbedienza consiste in questo: Chiara rifiuta le regole del suo tempo per scegliere di seguirne una, la sua. VALENTINA E ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

IL FILM DEL MESE (Febbraio 2014): MELANCHOLIA - Regia Lars von Trier 2011







Trama: dopo le nozze tra Michael e Justine, quest’ultima cade in depressione e la sorella Claire la accoglie a casa sua per assisterla. Nel frattempo un misterioso pianeta minaccia di entrare in collisione con la Terra.



In attesa di Nymphomaniac, Melancholia può considerarsi il secondo capitolo di una nuova trilogia del regista danese Lars von Trier. Due anni dopo la straziante sincerità di Antichrist in cui il regista, in balia di una forte depressione, mette a nudo la sua anima e il suo senso di colpa verso le donne, Melancholia è il film della pacificazione, della cessazione del dolore e della vana ricerca di un senso della vita. Il film su cui aleggia la presenza del padre spirituale Andrej Tarkovskij, ha al centro della narrazione il malessere, la fine del mondo e la nostra solitudine nell’universo con la consapevolezza che la malattia e il dolore cesseranno per sempre con l’evento definitivo che nessuno potrà raccontare. Contrariamente alle accuse di parte della critica di misoginia, Lars von Trier si identifica ancora una volta nel personaggio femminile ed ottiene dalle due attrici protagoniste Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst una prova attoriale altissima. Il rimanente cast è pur sempre importante basti citare Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling e John Hurt. (Charlotte Gainsbourg, Kirsten Dunst e Bjork sono state premiate con la Palma d’oro a Cannes quali migliori attrici per un film di Lars von Trier). Melancholia è un film immerso “nell’abisso del romanticismo tedesco” e riassunto negli splendidi tableaux vivants dell’overture sulla musica tragica e sublime del Tristano e Isotta di Wagner congelati nell’attimo precedente all’ultimo in cui tutto cesserà di esistere. E’ un film pervaso dalla nostalgia dei pre-raffaelliti e percorso dalle sagome scure dei Cacciatori nella neve di Bruegel perché l’arte ovvero il cinema per Lars von Trier “ è l’unico mezzo che abbiamo per illuminare la notte dell’anima e superare la nostra umana finitezza”. Anche questo film è diviso in capitoli che portano i nomi delle protagoniste: Justine e Claire. La prima parte pervasa da una artefatta animazione lascia il posto alla quiete di una lacerante attesa della fine ove resteranno solo le donne a testimoniare la conclusione (un bambino maschio che non crescerà e quindi non potrà arrecare danno). Allo spettatore non resta che abbandonarsi alla vertigine di un cinema capace di trasformare la fine di tutto nel momento più glorioso. CRISTINA GIACOMETTI

ROBERTO R. ha detto...

Con l’album d’esordio di questa band nasce il punk-rock. Brani veloci e brevissimi, schegge di distorsione arrembante come deflagrazioni da bombardamento, una dietro l’altra. Così avveniva anche dal vivo, senza presentazioni, tutte le song attaccate insieme, non lasciando capire quando finisse una canzone e iniziasse l’altra. Gli americani appaiono meno famosi dei Sex Pistols inglesi, ma in realtà il movimento inizia con i Ramones. Nasce un movimento culturale che rifiuta in se stesso il possedere una cultura, una intellettualità. Nulla importa più, non ci sono valori né modalità per esprimerli. Il punk professa l’autodistruzione, ma non lo professa come forma di pensiero, la mette in atto col menefreghismo più sfrenato, che se fosse diventato mezzo di protesta avrebbe avuto dei problemi legati alla logica: non si può essere auto-distruttori costruendo qualcosa di alternativo, e non si può essere distruttori pensando a soluzioni di distruzione, che diverrebbero anch’esse una forma di pensiero (e infatti il punk intellettualizzato da Patti Smith snaturò la vera essenza del punk). Nel punk non c’è pensiero, c’è solo il casino e “faccio ora quello che cazzo mi pare”, non perché è giusto, non perché è bello, ma perché mi va. La musica punk nacque incarnando proprio questo, il nichilismo non affermato ma vissuto; era finito il mondo sognante di una società migliore desiderata dai “Figli dei fiori”, quel mondo era ormai stato deluso e tradito dalla realtà. Anni dopo, Dee Dee Ramone scrisse un’autobiografia in cui raccontava quegli stati d’animo assolutamente lontani da ogni preoccupazione di qualche livello costruttivo. Non importava loro neanche della musica che facevano; suonavano, cercavano la droga e le donne, e alla fine solo quella, perdendo anche interesse verso il sesso, scendendo una china distruttiva che li rendeva apatici a tutto. Se qualche giornalista si interessava alla loro musica, i Ramones non si mostravano compiaciuti, ma chiedevano solo se gli si fosse portata qualche tipo di “roba”, e sennò mandavano a ‘fanculo il giornalista senza neanche dargli l’intervista, e non per ripicca, ma solo perché si annoiavano e volevano cercare la droga altrove. Quest’anno è morto l’ultimo membro fondatore della band (29.01.1952 - 11.07.2014): il batterista Tommy Ramone il cui vero nome era Thomas Erdelyi, ebreo, nativo dell’Ungheria (nel gruppo tutti avevano preso il finto cognome d’arte di “Ramone” come fossero fratelli). Non è stato solo alle pelli, ha invece partecipato alla stesura di alcuni brani come “I wanna be yourt boyfriend” e il brano qui analizzato; e ha co-prodotto gli album. Poi nel 1977, dopo il terzo lavoro, passò a fare il produttore a tempo pieno lasciando la batteria in mano ad un nuovo componente (produsse anche i famosi Talking Heads). Dei quattro forse è stato il meno legato alla filosofia afilosofica del punk, interessato più del resto del gruppo alla musica, e quindi spesso in polemica con gli altri; del resto fu lui a mettere insieme la band. Negli ultimi tempi suonava nel campo del Bluegrass negli Uncle Monk, che in realtà è formata da sole due persone, trasformando in Bluegrass anche i pezzi dei Ramones.

ROBERTO R. ha detto...

Il brano: “BLITZKRIEG BOP”, scritto da Tommy Ramone/DeeDee Ramone
Una sventagliata riffica della chitarra su un 4/4 lineare, e poi un “Hey Ho Let’s go” di incitamento. Il cantato semplice sta sempre sulla stessa ritmica, cambiando di poco la linea melodica. Una pausa che ripete l’incitamento urlato senza strumenti, poi rientra il solo basso ad accompagnare, e l’ingresso delle ultime note di chitarra termina di colpo la song che è durata poco più di due minuti. La musicalità appare un semplice rock’n’roll solo più tirato; sembra che possa essere considerata una canzoncina assimilabile a quelle dei Beach Boys che cantavano il divertimento sulla spiaggia. Non vi sono assoli né virtuosismi di sorta; l’espressività è tenuta al minimo per forma ma al massimo per carica caratteriale. Il titolo paragona la musica sparata alla tattica da guerra lampo dei tedeschi nella II guerra mondiale; in effetti sono brani mordi e fuggi, ognuna un colpo. Le parole sembrano voler descrivere la gente ai concerti, ma non sono così esplicite e comunque la penultima frase (What they want, I don’t know) racchiude il concetto dell’andare a caso nella vita, senza porsi il significato delle cose:
Hey ho, andiamo!
Hey ho, andiamo!

Stanno formando una linea retta
Stanno passando attraverso un vento stretto
I ragazzi stanno perdendo le loro menti
Il Blitzkrieg Bop

Si stanno ammassando nei posti in fondo
Stanno generando vapore caldo
Pulsando sul levare
Il Blitzkrieg Bop.

Hey ho, andiamo
Spariamogli alla schiena, ora
Quello che vogliono, non lo so
Sono tutti in piedi e pronti ad andare

La musica punk rigettava l’estetica di un rock che aveva perso l’istinto di Chuck Berry e Jerry Lee Lewis degli anni ’50, andando a rendersi complesso con il Prog-rock degli anni ’70 (Yes; Pink Floyd; Deep Purple). In qualche modo il punk riacquisiva quella parte istintuale, in un modo ancor più primitivo, infatti mentre il rock’n’roll possedeva anche gli assoli, il genere punk nemmeno quelli. Il nuovo movimento durò solo due anni, nel 1978 già era venuta alla ribalta la Disco Music, e il punk stava cambiando faccia, mantenendo la violenza espressiva e la forza dissacratoria, ma acquistando una ribellione strutturata. L’essenza nichilista e anarchica dei semplici comportamenti fu perduta, ma non la potenza rigenerante del rock tradizionale, che permise un aumento di energia grazie all’infusione di aggressività contribuendo alla nascita dell’Heavy Metal. I Ramones (e i Sex Pistols) hanno avuto questo grande pregio artistico. SKY ROBERTACE LATINI

ROBERTO R. ha detto...

LA POESIA DEL MESE (Settembre 2014): INDIANI D'AMERICA - TATANKA MANI - PREGHIERA PER IL GRANDE SPIRITO


Preghiera per il Grande Spirito
Oh Grande Spirito,
la cui voce ascolto nel vento,
il cui respiro dà vita a tutte le cose.
Ascoltami; io ho bisogno
della tua forza e della tua saggezza,
lasciami camminare nella bellezza,
e fa che i miei occhi sempre guardino
il rosso e purpureo tramonto.
Fa che le mie mani rispettino la natura
in ogni sua forma e che le mie orecchie
rapidamente ascoltino la tua voce.
Fa che sia saggio e che possa capire
le cose che hai pensato per il mio popolo.
Aiutami a rimanere calmo e forte
di fronte a tutti quelli
che verranno contro di me.
Lasciami imparare le lezioni
che hai nascosto in ogni foglia
ed in ogni roccia.
Aiutami a trovare azioni
e pensieri puri per
poter aiutare gli altri.
Aiutami a trovare la compassione
senza la opprimente
contemplazione di me stesso.
Io cerco la forza,
non per essere più grande del mio fratello,
ma per combattere
il mio più grande nemico: me stesso.
Fammi sempre essere pronto
a venire da te con mani pulite
e sguardo alto.
Così quando la vita appassisce,
come appassisce il tramonto,
il mio spirito possa
venire a te senza vergogna.

ROBERTO R. ha detto...

Tatanka Mani “Bisonte che Cammina”

Dopo la pausa estiva torno alla sezione poesia proponendo la poetica degli Indiani d’America. Desidero, in questo modo, testimoniare ed auspicare un’idea di pace che, al momento, è nefandamente offuscata dal proliferare, in tutto il mondo, di guerre sanguinose e crudeli: “Pace non é solo il contrario di guerra, non é solo lo spazio temporale tra due guerre... Pace é di più. E' la Legge della vita. E' quando noi agiamo in modo giusto e quando tra ogni singolo essere regna la giustizia” (Detto degli Irochesi). La “Preghiera per il Grande Spirito” è di Tatanka Mani (“Bisonte che Cammina” - 1871-1967), grande Capo Indiano originario della Tribù Stoney del Canada. Da bambino fu adottato da un missionario bianco dal quale ricevette una buona educazione scolastica e in età adulta divenne capo della sua tribù, proprio in un periodo storico nel quale agli indiani venne tolto il proprio spazio vitale con il tentativo di sradicarli dalla loro memoria genetica, obbligandoli a confrontarsi con la civiltà dei bianchi. In questa poesia Tatanka Mani si chiede se sia pronto ad arrivare ad incontrare il Grande Spirito, nel momento della morte, con le mani pulite, lo sguardo alto e senza vergogna. Attraverso questi versi abbiamo l'opportunità di incontrare l'intelligenza, la cultura, la sensibilità e lo spirito degli Indiani d'America, sacrificato dai bianchi colonizzatori che, anziché cercare di valorizzare ciò che trovarono sul ricco e fertile suolo del continente americano, fecero scempio delle radici genetiche di un popolo che così tanto ha dato e ancora continua a dare, alla storia dell'umanità, interrompendo violentemente il loro sviluppo e la loro evoluzione socio-culturale. Infatti all'arrivo degli europei nel nord America esistevano moltissime popolazioni indiane, con culture molto diverse che andavano dai raccoglitori dell'Età della Pietra alle città dei Pueblo. Dalle poesie di questo fiero popolo diviso in tribù, ma unito nel rispetto di leggi naturali, che nulla hanno da invidiare alla falsa etica dei bianchi, che hanno vissuto armonizzandosi con la Natura, nella quale si riconoscono e che interpretano come immagine e manifestazione del "Grande Spirito" da cui tutto ha avuto origine, ci giunge ancora oggi un messaggio di vera cultura iniziatica naturale, scevra di ipocrisie e meschini interessi di parte, utile alla comunità con cui si identificano e che non viene limitata dai confini tracciati su comode carte topografiche, ma che sono i confini naturali della Terra, che includono ogni essere vivente. Il metodo sociale che distingue nettamente la cultura indiana da quella dell'uomo bianco è che la prima pone l'uomo come parte integrante dell'intero Creato in cui la Terra occupa un posto, così si attiene al rispetto delle leggi naturali e della Creazione. La seconda invece pone l'uomo come "signore del creato" e di conseguenza lo autorizza ad assoggettare, sottomettere, addomesticare, tutto ciò che può; fino ad arrivare a distruggere ciò che non è in grado di capire e di accettare. Amore e gioia, dolore e guerra, natura e magia, tutta la realtà e l'universo mitico dei nativi americani emergono così da quel silenzio in cui la "civiltà" dei colonizzatori bianchi, con il suo linguaggio, le sue leggi, i suoi eserciti avrebbe voluto confinarli. Rivivono in questi versi le voci dirette dei Dakota, Sioux, Pawnee, Navajo, Shoshone e di tutte le altre tribù che hanno abitato gli enormi spazi dell'America del Nord e del Canada, dalle foreste orientali alle Grandi Pianure, dalla California alla Costa Nord Occidentale.

ROBERTO R. ha detto...


Altre due poesie:

Il cacciatore si rivolge al cervo che ha abbattuto:

Mi dispiace di averti dovuto uccidere,
piccolo fratello.
Ma io ho bisogno della tua carne,
perché i miei figli, soffrono la fame.
Perdonami, piccolo fratello.
Io voglio onorare il tuo coraggio, la tua forza
e la tua bellezza - guarda !
Io appendo le tue corna a questo albero;
ogni volta che vi passerò davanti,
penserò a te
e renderò onore al tuo spirito.
Mi dispiace di averti dovuto uccidere;
perdonami, piccolo fratello.
Guarda, in tua memoria
io fumo la pipa,
io brucio questo tabacco.
Jimalee Burton

Poesia del 1974 scritta da un'indiana Cherokee dal nome indiano Ho-chee-nee. Il popolo dei Cherokee viveva originariamente nel sud ovest degli Stati Uniti, poi venne cacciato a forza in un territorio sterile e arido ell'Oklahoma e quando lo resero fertile, furono cacciati di nuovo.


Io ne ho ancora

Non posso
immaginarmi
un popolo senza casa,
eppure io vedo
ogni giorno
come vagano senza meta,
come dei disperati
cercano radici e cose
che dovrebbero dare un senso alla loro vita.
Povero uomo bianco
nella tua violenza
nel tuo splendore
in tutto il tuo benessere
hai perduto la tua eredità
ora tu vuoi la mia
allora prendila,
io ne ho ancora.
John Twobirds Arbuckle

Questa ultima lirica, a mio modesto parere, sintetizza tutto lo spirito di questo grande e generoso popolo che sono gli Indiani d’America.

CHIARA PASSARELLA

ROBERTO R. ha detto...

IL LIBRO DEL MESE (Settembre 2014): VOGLIO LA MAMMA di Mario Adinolfi.


Così Mario Adinolfi sul suo blog 'Il Cannocchiale' il 15 gennaio di quest'anno presentava il suo libro Voglio la mamma.
"Tra poco più di due mesi, il 19 marzo 2014, uscirà in libreria il mio nuovo libro: Voglio la mamma - da sinistra, contro i falsi miti di progresso. Sul mio profilo Facebook ho anticipato stralci di tutti i capitoli. Quello che segue è il quattordicesimo capitolo, il penultimo. Racchiude il senso del libro, sinteticamente: ...Giunti verso la fine di questa strada compiuta insieme, credo sia necessario racchiudere quel che si è provato a dire in venti punti che rappresentano principi irrinunciabili che ritengo non solo non debbano essere negoziabili, ma necessitino un'attività di proselitismo per ricondurre il dibattito intellettuale e politico sui temi tabù che abbiamo affrontato dentro i confini di una razionalità condivisa, lontano dall'impazzimento modaiolo che sembra avere la meglio in questa fase.
1. Non esiste l'individuo, esiste la persona, dunque l'individuo in relazione con altri individui. La relazione primigenia, archetipica e intangibile, è quella tra madre e figlio. Negarla è negare la radice dell'essere umano.
2. La libertà individuale è un totem che non necessita di tutele e non genera diritti. Al contrario, la libertà personale, dunque la libertà degli individui in relazione con gli altri,è preziosa e va ampliata senza che nuovi diritti ledano però l'essere umano in radice.
3. La libertà personale da tutelare in via prioritaria è quella dei soggetti più deboli: bambini, malati, anziani.
4. Il primo diritto è il diritto a vivere.
5. Non esiste un diritto all'aborto, esiste un diritto alla nascita. L'aborto è sempre una tragedia e un fallimento, come tale va trattato e con ogni sforzo possibile evitato.
6. I diritti prioritari da tutelare sono quelli della libertà personale, dunque relazionale, per eccellenza: i diritti della famiglia.
7. Non esistono le famiglie, esiste la famiglia: cellula base del tessuto sociale, composta da un nucleo affettivo stabile aperto in potenza alla procreazione. In natura la procreazione avviene con l'unione di un uomo e di una donna. E' questa la base di un nucleo familiare propriamente detto.
8. L'omosessualità è una tendenza sessuale ovviamente legittima, i cui legami affettivi stabili possono essere tutelati da istituti giuridici, ma nettamente distinti dal matrimonio.

ROBERTO R. ha detto...

9. La rottura della sacralità e dell'unicità dell'istituto matrimoniale come unione di un uomo e di una donna, porta inevitabilmente e logicamente alla estensione dell'istituto stesso ad ogni forma di legame affettivo stabile. La legittimazione di poligamia, poliandria, unioni a sette, otto, dieci o venti persone, sarebbe dietro l'angolo con conseguenze letali per il tessuto sociale e la stabilità finanziaria degli Stati.
10. Non esiste l'omogenitorialità. Non esiste la genitorialità. Esistono la maternità e la paternità.
11. Negare a un bambino il diritto ad avere una madre e un padre, sostituendoli con il "genitore 1" e "genitore 2", è una forma estrema di violenza su un soggetto debole.
12. La sfera sessuale di un minore è intangibile e sono intollerabili le norme che prevedono la non procedibilità d'ufficio contro le persone che hanno rapporti sessuali con bambini di dieci anni e assumono per libero il consenso all'atto sessuale di ragazzini di quattordici anni.
13. Il turismo sessuale degli occidentali avente per oggetto in particolare le minorenni e i minorenni asiatici, è una violenza orrenda che merita il peggiore stigma sociale.
14. La variazione dell'identità sessuale di una persona dovrebbe essere prevista in casi del tutto eccezionali. Il mercimonio del corpo di una persona spesso in una finta fase di transizione da un'identità sessuale all'altra, grazie alla quale si ottiene maggiore attenzione e successo nel mercato della prostituzione, è un'attitudine che va combattuta.
15. La compravendita del corpo femminile, nella forma estrema della compravendita della maternità e dell'orrendo "affitto" dell'utero, che fa leva sullo stato di bisogno della donna per toglierle anche l'elemento più intimo della propria identità sessuale, va vietato da ogni normativa.
16. Tra due gay ricchi che fanno strappare dal seno della madre il neonato appena partorito per far finta di essere madre e padre, e il neonato così platealmente violato fin dai suoi primi istanti di vita, chiunque non abbia un bidet al posto del cuore sta con il neonato. E con sua madre.
17. L'eutanasia infantile è una procedura nazista e il protocollo di Groningen è un documento fondativo di una nuova pericolosa eugenetica discriminatoria e razzista.
18. Le diagnosi prenatali hanno fatto crollare nei paesi Occidentali le nascite di albini, affetti da sindrome di Down e da altre alterazioni cromosomiche. E' intollerabile questa strage di persone affette da minime disabilità.
19. La morte non è mai "dolce". L'instaurazione di norme che prevedano l'eliminazione delle persone in condizione di difficoltà grave fisica o psichica, secondo il labile e mutevole principio che la loro sarebbe una "vita non degna di essere vissuta", apre la strada all'inferno.
20. Al centro della difesa della vita e della persona c'è la donna. Il futuro della razza umana ha le forme di una madre. Così è, così è sempre stato, così sempre sarà."

ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...

9. La rottura della sacralità e dell'unicità dell'istituto matrimoniale come unione di un uomo e di una donna, porta inevitabilmente e logicamente alla estensione dell'istituto stesso ad ogni forma di legame affettivo stabile. La legittimazione di poligamia, poliandria, unioni a sette, otto, dieci o venti persone, sarebbe dietro l'angolo con conseguenze letali per il tessuto sociale e la stabilità finanziaria degli Stati.
10. Non esiste l'omogenitorialità. Non esiste la genitorialità. Esistono la maternità e la paternità.
11. Negare a un bambino il diritto ad avere una madre e un padre, sostituendoli con il "genitore 1" e "genitore 2", è una forma estrema di violenza su un soggetto debole.
12. La sfera sessuale di un minore è intangibile e sono intollerabili le norme che prevedono la non procedibilità d'ufficio contro le persone che hanno rapporti sessuali con bambini di dieci anni e assumono per libero il consenso all'atto sessuale di ragazzini di quattordici anni.
13. Il turismo sessuale degli occidentali avente per oggetto in particolare le minorenni e i minorenni asiatici, è una violenza orrenda che merita il peggiore stigma sociale.
14. La variazione dell'identità sessuale di una persona dovrebbe essere prevista in casi del tutto eccezionali. Il mercimonio del corpo di una persona spesso in una finta fase di transizione da un'identità sessuale all'altra, grazie alla quale si ottiene maggiore attenzione e successo nel mercato della prostituzione, è un'attitudine che va combattuta.
15. La compravendita del corpo femminile, nella forma estrema della compravendita della maternità e dell'orrendo "affitto" dell'utero, che fa leva sullo stato di bisogno della donna per toglierle anche l'elemento più intimo della propria identità sessuale, va vietato da ogni normativa.
16. Tra due gay ricchi che fanno strappare dal seno della madre il neonato appena partorito per far finta di essere madre e padre, e il neonato così platealmente violato fin dai suoi primi istanti di vita, chiunque non abbia un bidet al posto del cuore sta con il neonato. E con sua madre.
17. L'eutanasia infantile è una procedura nazista e il protocollo di Groningen è un documento fondativo di una nuova pericolosa eugenetica discriminatoria e razzista.
18. Le diagnosi prenatali hanno fatto crollare nei paesi Occidentali le nascite di albini, affetti da sindrome di Down e da altre alterazioni cromosomiche. E' intollerabile questa strage di persone affette da minime disabilità.
19. La morte non è mai "dolce". L'instaurazione di norme che prevedano l'eliminazione delle persone in condizione di difficoltà grave fisica o psichica, secondo il labile e mutevole principio che la loro sarebbe una "vita non degna di essere vissuta", apre la strada all'inferno.
20. Al centro della difesa della vita e della persona c'è la donna. Il futuro della razza umana ha le forme di una madre. Così è, così è sempre stato, così sempre sarà."

ROBERTO RAPACCINI

ROBERTO R. ha detto...


IL FILM DEL MESE (Estate 2014):


KILLER JOE (U.S.A. 2011)


Regia: William Friedkin


INTERPRETI: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Gina Gershon, Juno Temple





Trama: In Texas, a Chris (Emile Hirsch), spacciatore pasticcione, servono seimila dollari per ripagare la droga che la madre, con cui vive, ha venduto in segreto. Venuto a sapere che la madre ha una assicurazione sulla vita di cinquantamila dollari, decide, insieme al padre (Haden Church), alla matrigna (Gina Gershon) e alla sorella Dottie (Juno Temple), di ingaggiare un killer per ucciderla: Joe Cooper (Mattew McConaughey), detective con questa piccola attività collaterale. Tuttavia vengono tutti ingannati e a loro volta cercano di ingannarsi: il massacro sarà inevitabile. Tratto dall’opera teatrale (1993) del premio Pulitzer Tracy Letts, anche sceneggiatrice, presentato in concorso a Venezia 2011, quando vinse Faust, ma distribuito solo nell’autunno 2012, a poche ore dalla prima al festival veneziano era già diventato un cult del noir, dove tutto, persino una coscia di pollo, succhiata avidamente, può diventare qualcosa di osceno, violentissimo e terribile.





William Friedkin non è mai stato un regista tenero: da "Il braccio violento della legge" a "Cruising", da "L'esorcista" fino al suo capolavoro "Vivere e morire a Los Angeles", la violenza, rappresentazione parossistica di un pessimismo radicale, è da sempre al centro delle sue rappresentazioni. Killer Joe, presentato alla Mostra di Venezia 2011 (dove finì ahimè senza premi) può considerarsi il suo noir-pulp più spietato, brutale, e, nel finale, quasi grottesco, dove William Friedkin (qui tra i Coen e Tarantino) conferma l'intolleranza a ogni accomodamento narrativo, agganciandosi al precedente, claustrofobico e distruttivo "Bug" (2006), anch'esso tratto da una pièce di Tracy Letts e mai distribuito in Italia.

ROBERTO R. ha detto...


IL FILM DEL MESE (Estate 2014):


KILLER JOE (U.S.A. 2011)


Regia: William Friedkin


INTERPRETI: Matthew McConaughey, Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Gina Gershon, Juno Temple





Trama: In Texas, a Chris (Emile Hirsch), spacciatore pasticcione, servono seimila dollari per ripagare la droga che la madre, con cui vive, ha venduto in segreto. Venuto a sapere che la madre ha una assicurazione sulla vita di cinquantamila dollari, decide, insieme al padre (Haden Church), alla matrigna (Gina Gershon) e alla sorella Dottie (Juno Temple), di ingaggiare un killer per ucciderla: Joe Cooper (Mattew McConaughey), detective con questa piccola attività collaterale. Tuttavia vengono tutti ingannati e a loro volta cercano di ingannarsi: il massacro sarà inevitabile. Tratto dall’opera teatrale (1993) del premio Pulitzer Tracy Letts, anche sceneggiatrice, presentato in concorso a Venezia 2011, quando vinse Faust, ma distribuito solo nell’autunno 2012, a poche ore dalla prima al festival veneziano era già diventato un cult del noir, dove tutto, persino una coscia di pollo, succhiata avidamente, può diventare qualcosa di osceno, violentissimo e terribile.





William Friedkin non è mai stato un regista tenero: da "Il braccio violento della legge" a "Cruising", da "L'esorcista" fino al suo capolavoro "Vivere e morire a Los Angeles", la violenza, rappresentazione parossistica di un pessimismo radicale, è da sempre al centro delle sue rappresentazioni. Killer Joe, presentato alla Mostra di Venezia 2011 (dove finì ahimè senza premi) può considerarsi il suo noir-pulp più spietato, brutale, e, nel finale, quasi grottesco, dove William Friedkin (qui tra i Coen e Tarantino) conferma l'intolleranza a ogni accomodamento narrativo, agganciandosi al precedente, claustrofobico e distruttivo "Bug" (2006), anch'esso tratto da una pièce di Tracy Letts e mai distribuito in Italia.

ROBERTO R. ha detto...

Nonostante i caratteri assurdi e grotteschi della vicenda che simultaneamente suscitano il riso più abietto e lo sgomento più profondo nello spettatore, la coerenza di una storia così atipica e paradossale è garantita da una costruzione e introspezione psico-sociale dei personaggi particolarmente scrupolosa e funzionale, così che ogni azione, anche la più folle, risulta giustificabile. Chris Smith (Emile Hirsch) è un giovane spacciatore, che per un debito piuttosto impellente da saldare si rivolge al padre Ansel per complottare l’omicidio della madre/ex moglie, coperta da una cospicua assicurazione alla vita. Sostenuti anche da Sharla, la nuova moglie di Ansel, per adempiere al misfatto assoldano il poliziotto/sicario Joe (Matthew McConaughey mono-espressivo e maniacale, in una delle sue più intense interpretazioni), che pone come clausola preliminare, finché non gli saranno resi i suoi soldi, il “possesso” di Dottie (interpretata da una Juno Temple sempre più matura), sorella di Chris. Dottie è una ragazza radicalmente traumatizzata e destabilizzata (sopravvissuta al tentato soffocamento da parte della madre), distinta da una sensualità spettrale e inquietante, il personaggio più friedkiniano della storia, che oscilla tra ideali proferiti di purezza e le prevaricazioni sessuali di Joe. Il regista posa la sua lente d’ ingrandimento sul nuovo nucleo familiare, circondato però da tutta una serie di personaggi citati e baluginanti, che hanno però una decisiva influenza nel corso dell’intera vicenda.


Killer Joe è un film che assorbe lo spettatore in un vortice di delirio; che cattura con suoni come il fulmine che squarcia il cielo notturno, e immagini di notevole risalto visivo. Nulla appare casuale, ogni minimo elemento si rivela strumentale nell’impressionare il pubblico, indice di una sensibilità registica/autoriale di indistinguibile coscienza artistica. Una storia ambientata nell’America country provinciale e dimenticata, in cui i personaggi si muovono tra costruzioni arrugginite e derelitte, che strisciano tra polvere e sangue; un Western modernissimo che non rinuncia però ai costrutti più tradizionali del genere. Un film che complessivamente è caratterizzato da una dialettica visiva e dialogica perversa che rivela tutta l’ineluttabilità e l’irreversibilità del racconto. Di famiglie disfunzionali e allo sbando la cinematografia americana ci ha fatto ampio dono negli anni, ma la famiglia Smith sale di diritto fra le più terrificanti della storia del cinema. C'è il padre Ansel, apatico e disinteressato a tutto, la sua seconda moglie Sharla che conosciamo nel prologo del film quando va ad aprire la porta nuda dalla vita in giù, scena spiazzante che Friedkin gioca con maestria per farci capire in che casa, e in che film, ci sta invitando ad entrare, c'è il figlio di Ansel, Chris, che ha debiti per droga, scommette e non sa che fare della propria vita e la giovane Dottie, ragazza tendente

ROBERTO R. ha detto...

all'autistico, ingenua a tratti, fin troppo determinata in altri. In questo contesto nasce l'idea di uccidere la madre dei due ragazzi, la prima moglie di Ansel, per intascare i soldi dell'assicurazione. E' Chris a proporre l'idea al al padre, ma sarà proprio il ragazzo quello più incerto sulla realizzazione finale, mentre la candida Dottie, dito in bocca e baby doll adolescenziale si dimostrerà decisissima a portarla a termine. Il padre come al solito segue la scia e Shana si svelerà un'abile doppio - o forse triplo - giochista. La scelta del killer cade su Joe Cooper, poliziotto con una meticolosa propensione al crimine che per 25.000 dollari è disposto a commettere l'omicidio. Poiché i soldi per un anticipo gli Smith non li hanno, Joe propone loro di avere Dottie a disposizione fin quando non potranno saldare il debito. Da qui in poi la girandola di eventi e di situazioni paradossali e provocatorie non avrà limite fino al parossistico finale che ovviamente non va raccontato. Friedkin, con un testo teatrale del Premio Pulitzer Tracy Letts a sostegno, ci regala un personaggio ambiguo, contraddittorio e seducente come pochi, quel killer Joe capace di perversioni cruente e di impennate etiche, di tratti tenerissimi e di scatti crudeli. Matthew McConaughey aderisce alla pelle di questo “villain” con un'eleganza trattenuta, con un guizzo negli occhi e con un linguaggio del corpo semplicemente perfetti e relega i comprimari ad uno scomposto balletto di gesti sgraziati, di esagerati sensi di colpa e di patetici tentativi di riscatto. Il salotto in cui si svolgono gran parte delle scene è claustrofobico quanto basta per dar modo alle psicologie deviate di manifestarsi, e ai contrasti di esplodere, e in questo luogo non luogo è Dottie ad assumere il ruolo di catalizzatore, è lei a tenere testa a Joe, a tirare le fila di una partitura incompiuta ma perfettamente orchestrata. I colpi di scena ne fanno un thriller, i brandelli di anima che vengono messi a nudo ne fanno una pellicola in cui analisi sociale e psicologica la fanno da padrona, i litri di sangue che scorrono ne fanno un pulp quasi comico - il pugno diretto e fulminante che Joe assesta a Sharla non può non far ridere, ma questo è Friedkin, un regista poliedrico e bulimico, che non sottrae - e questo può essere un limite del film che con qualche pestaggio in meno avrebbe guadagnato in asciuttezza e rigore - ma che sa come tratteggiare un carattere, come girare una scena difficile - complice una coscia di pollo fritto - e come dirigere gli attori - i duetti Dottie - Joe sono ad altissima tensione. Bislacco, stravagante, volutamente sopra le righe e con una trama e uno svolgimento quasi surreale "Killer Joe" potrebbe essere un post moderno B movie, ma un B movie di grandissimo talento e infinita ironia. CRISTINA GIACOMETTI

Sky Robertace ha detto...

"LA FAMIGLIA BELIER" l'ho visto l'altro ieri insieme a mio figlio. Bello. Semplice, diretto; e carino proprio nella sua semplicità. Con una musica delicata.
Roberto Latini

Anonimo ha detto...

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IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI

(Michael Ende)

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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.

(Carl Gustav Jung)