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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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163. RECENSIONI 2012 di Roberto Latini


CIRCLE OF THE OATH -  Axel Rudi Pell    -    2012


Ai miei tempi (Urca ! Sono così rincitrullito da ricorrere a questa tipica frase da vecchiaccio?) questo rock veniva chiamato Heavy Metal anche se si rifaceva a quello degli anni ’70. Adesso invece viene collocato impunemente nell’Hard Rock. In realtà l’Hard Rock dei settanta suonava diverso. Ormai hard rock pare non significhi più il periodo dei ’70, l’Hard è divenuto solo uno dei tanti tipi di Metal. Infatti si può affermare che l’Hard attuale sia altro da quello di quel periodo: più fresco, più ibrido e meno bluesante (alla fine questo discorso suona un po’ aleatorio). Comunque Axel è ben inserito in questa corrente anche se risulta leggermente più derivativo di altri. Ma c’è la classe e questo fa la differenza. “GHOST IN THE BLACK” parte elettrica dopo un intro interessante (e peccato che non sia una unica traccia). Bel giro di chitarra e ritmo sostenuto. Voce fresca ed energica. Assolo di chitarra e tastiere che alternandosi fanno proprio divertire.  “RUN WITH THE WIND” è orecchiabile ma senza perdere niente in energia e valore. Riff semplice, linea vocale d’impatto e positivamente catchy. Se una song deve essere commerciale deve essere così. “BEFORE I DIE” tiene su il ritmo, e con un bel riff presenta una canzone che sta fra lo Street Metal e Bon Jovi. Bel sostegno prodotto dalla chitarra ritmica efficacissima, ineccepibile l’assolo. “FORTUNES OF WAR” è un pezzo dalla linea vocale pseudo Bon Joviana, ma in realtà l’arrangiamento è più metal e corposo. Pur possedendo un ritornello canticchiabile, il pathos è piuttosto serioso. Poi nella parte centrale, non cantata, ecco spuntare la chitarra classicheggiante dello stile Rainbowiano.  “LIVED OUR LIVES BEFORE” è soft. Io mi preoccupo sempre di questo tipo di composizioni, soprattutto quando lo stile va verso il commerciale. Ma questa è davvero riuscita. Non si esce dai clichè ma possiede il giusto equilibrio d’atmosfera e di carattere, senza farsi smielata. Io la porrei sul versante Scorpions sia per linea vocale sia per caratteristica chitarristica.  “HOLD ON TO YOUR DREAMS” inizia con un riffato semplice semplice, più o meno supersentito, ma poi la canzone è altro e quindi acquista valore. AoR di classe.  “WORLD OF CONFUSION” è un brano middle-time rivestito di una patina epica cui ci abituarono proprio i Rainbow, e poi successivamente Ronnie James da solo. Nel disco ce ne sono altri due così, si tratta della title-track e di “Bridges to nowhere”, entrambi di ampia atmosfera, senonchè mancano di personalità, tanto da farmeli percepire troppo familiari. Questo invece è sicuramente migliore. Parte soffice con chitarra e voce (chitarra più Scorpioniana che Rainbowiana), poi entra un riff caldo e doom (bè, non esageriamo) e la voce si fa virile (tipologia alla Ronnie). Ottimi brividi sulla pelle, ma se avesse cantato R.J.Dio avremmo avuto i brividi raddoppiati. Nel finale aumenta la velocità del ritmo, dando il via al secondo assolo (un altro c’era stato prima), per un finale di album dal pathos aumentato che si conclude con inserto breve di chitarra acustica triste. In passato, pur producendo dischi buonissimi, spesso questo chitarrista tedesco faceva troppo il verso ai Rainbow, quando di Dio quando di Turner e compagni, ma comunque sicuramente in alcuni casi eccessivamente Blackmore. Stavolta ha virato verso altre sonorità, pur mantenendo una base Blackmoriana. Si sente un accostamento all’Hair Metal e all’AoR, ma anche un che di Jon Bon Jovi e Scorpions. La percezione della leggerezza AoR non trasforma fortunatamente mai il sound in qualcosa di banale.  Gli assoli sono una parte importante del lavoro, del resto Pell è un chitarrista. Ma qui la forma compositiva dà grande attenzione al valore della canzone, senza inserire inutili virtuosismi. E’ un lavoro più fresco dell’ultimo album di due anni fa, si sente una ispirazione maggiore e non dà il senso di un lavoretto fatto per dovere.  Sky Robertace Latini

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L’HARD ROCK VIVE TRA NOI

L’Hard Rock diventò altro da sé, più o meno, dal 1979 in poi. Nel 1983, con Slayer e Metallica ebbe un altro cambiamento; poi venne il Grunge negli anni ’90, e il Nu metal alcuni anni dopo. Tra inserti di varia natura musicale tutto sembra andare sotto il singolo nome di Metal, suddividendosi poi in sotto e sotto e sotto generi all’infinito. Senza considerare poi che gruppi o dischi al tempo considerati heavy metal oggi vengono catalogati come hard rock (per esempio gli Scorpions). Anche l’Hard Rock è diventato uno dei tanti metal; avrebbe dovuto estinguersi e basta, e rimanere un cimelio anni ’70, e invece c’è chi ha continuato a comporre quella roba lì pur giovane anagraficamente, e lo ha fatto con personalità. Allora oggi l’Hard Rock non è altro che uno dei tanti modi di far metal. Del resto l’unica vera differenza tra il rock duro del passato e quello nato successivamente è data dal fatto che quello era più vicino temporalmente e perciò stilisticamente al rock’n’roll e al blues rock. Ma c’è modo e modo di affrontare l’Hard Rock….quello troppo legato al passato che fa la figura del “derivativo”, cioè dello scopiazzato che risulta trito e ritrito, oppure quello che possiede una minima diversità da dargli quel qualcosa in più, senza per questo uscire dai canoni Hard Rock. Ecco, ciò è quello che è successo quest’anno agli inglesi Ufo e agli statunitensi Lillian axe e al teutonico Axel Rudi Pell. La prima band è famosa perché suona dal 1970, e la seconda è invece un prodotto di fine anni ’80 (il primo album è del 1988). Il chitarrista Axel invece nasce discograficamente nel 1984 con gli Steeler, ma nel 1989 da solista. Cosa hanno fatto quest’anno le tre band ? Hanno pubblicato entrambi un nuovo lavoro da studio: e mentre gli Ufo hanno realizzato un disco mediocre, troppo rilassato e con pochi spunti, i Lillian Axe sembrano invece essersi impegnati ed hanno tirato fuori un estro artistico ancora ispirato, a metà strada tra i due sta A.R.Pell. Se vogliamo essere pignoli i Lillian axe e Pell farebbero parte di quella parte di rock che al tempo sarebbe stato annoverato nell’Heavy e oggi invece è Hard. Sembra come se gli Ufo si fossero detti: “Cosa abbiamo fatto nella nostra carriera? Questo ? Ehi ha funzionato, rifacciamolo!  Senti questa…ci assomiglia…buttiamola dentro!” Invece i Lillian A. non hanno detto nulla: hanno sentito la vibrazione, l’ispirazione divina…e, illuminati, l’hanno usata. Anche Axel secondo me era in vena, con la differenza che non si allontana mai troppo dal classico clichè utilizzato nel passato, restando un po’ indietro artisticamente rispetto ai Lillian Axe, in quanto a volte troppo derivativo anch’egli come gli Ufo (e quando lo sono gli Ufo, copiano se stessi, mentre quando lo è Axel, copia altri, e non è certo la stessa cosa). Bè io non so davvero come è andata, ma una cosa la capisco: non importa quanto tu sia stato bravo…se la scintilla adesso non c’è, non c’è. Ad ogni modo sia i L.Axe che Axel Rudi Pell, hanno prodotto un album fresco e dinamico (mentre gli UFO sono rimasti alla sbarra) dimostrando che il rock non è morto e che non è una questione di generi o stili ma di attitudine all’arte, di una mente e un cuore che possono accendersi come lampadine, ma il cui interruttore non è in mano nostra.  Sky Robertace Latini

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“XI: THE DAYS BEFORE TORROW”     Lillian Axe    2012

Un HardMetalRock squisitamente cesellato. Non capisco come certa critica, pur apprezzandolo, ne sottovaluti il reale valore. Certo alcuni momenti ricordano cose già sentite, ma si tratta solo di accenni, anche se distribuiti qua e là in modo quasi regolare come puntini su di un quadro. In verità si sente perfettamente la voglia di essere personali e il tentativo è riccamente riuscito. Non si tratta di forzature compositive, visto che tutto appare molto spontaneo.  “BABYLON” parte con un giro chitarristico iperveloce sembrando voler incedere poi verso un ritmo tirato, invece ecco un middle-time sorretto da un riff corposo. Si nota subito la ricercatezza dei suoni e dei passaggi strutturali. Orecchiabile e al tempo stesso cupo. La chitarra solista si infila qua e là con ficcante precisione e le voci tra loro sovraincise eseguono una linea melodica sinuosa. Bellissimo assolo di chitarra, sofisticato e originale. Una vera opera d’arte. “GATHER UP SNOW THE SNOW” è sorretto da un riff un pò scontato ma il percorso melodico e strutturale è raffinato e intelligente. “THE GREAT DIVIDE” ad un primo ascolto sembrano gli Europe, invece presto ci si accorge che il gruppo più vicino è quello dei Rasmus. La linea vocale contiene un certo pathos ma ce l’ha anche l’assolo di chitarra. “TAKE THE BULLET” fa di nuovo il gioco di far finta di partire veloce e invece il ritmo è più lentamente cadenzato. Ma è un brano ad effetto e dinamico. Peccato per la brevità dell’assolo che sembrava poter dare di più. “BOW YOUR HEAD” è la ballata che rimane al livello generale del disco. Sono i brani soft che mi piace sentire, considerando che spesso sono il passo falso e smielato di questo tipo di dischi. Invece buona la struttura e la melodia che non stanca. Ricorda un po’ Bon Jovi, soprattutto nel ritornello. Chitarra acustica solista che non si spreca, ma lascia al posto a quella elettrica, in entrambi i casi un po’ poco. “CAGED IN” è il pezzo fulminante che deve esserci in un disco che si rispetti. Ben rockato ed elettrico. Visto lo stile del lavoro non si tratta di un 4/4 metal iperscatenato, anzi possiamo dirlo nella tipologia delle composizioni più dure e veloci del periodo Hard di gruppi quali Ufo e Scorpions degli anni ’70 (sebbene il riff derivi dal punk…ma il punk è comunque nato nei ’70). “SOUL DISEASE” si produce in un riff parzialmente moderno ma la linea vocale non cede all’attualità, prediligendo antiche vestigia sonore.  “LAVA OF MY TONGUE” è forse il pezzo più aggiornato. Riff corposo e andamento oppressivo. Non lascia andare l’ascoltatore trascinandolo in una atmosfera cupa e leggermente ipnotica. Assolo di chitarra con lievi riverberi psichedelici. Finale voce-chitarra ad effetto. Great song. “MY APOLOGIES” è un altra soft song di rilievo. Lascia la sua forte impronta nel disco, non è un riempitivo. Basata tutta sulla voce (che non è sdolcinata) mette tutti gli strumenti in secondo piano eccetto quando entra l’assolo con la sua carica mordente. Non conosco i vecchi lavori. La band è considerata di viraggio AoR; alcuni la catalogano semplicemente nell’Hard Rock o nell’Heavy Metal. Io credo che l’Aor sia appena accennato, infatti non li percepisco così leggeri; per me è una via a metà tra l’Hard Rock anni ’70 e l’Heavy Metal anni ’80, almeno in quest’album. La chitarra ritmica è lo scheletro portante ed è forse anche usata più che in certe altre band Hard Rock. Suoni puliti e di classe. Voce morbida ma che non perde mai consistenza e solismi sufficientemente virtuosi. Piatto ricco mi ci ficco. Sky Robertace Latini

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“SEVEN DEADLY”     UFO  -  2012

In passato abbiamo già assaggiato dischi scarsi di questa mitica band inglese. Quindi, nonostante le speranze non mi sono sentito deluso…me lo aspettavo. Certo, considerando i fasti dei ‘70/’80, e considerando che altri vecchi gruppi hanno pubblicato anche negli anni 2000 ottimi album, devo dire che è un peccato che gli UFO non riescano a risorgere adeguatamente. “FIGHT NIGHT” è il miglior pezzo del disco. Un hard rock caldo e gustoso dal 4/4 lineare. “STEAL YOURSELF” sembra un southern hardrock dei Lynyrd Skynyrd. Bello proprio per questo. Chitarra corposa e middle-time ripetitivo che scorre fluidamente senza punte di fuga, ma con la classe di chi suona da anni. Assolo chitarristico del buon vecchio stile, come un ottimo vino invecchiato. “BURN YOUR HOUSE DOWN” è una ballata tranquilla, non sdolcinata,  ma dal feeling suadente, il quale trasporta in una atmosfera leggera e riposante che possiede un filo di pathos. “THE FEAR” è un Hard Blues proprio vicino al sound antico che questi rocker suonano con la giusta verve. Pastoso, denso e anche raffinato. “OTHER’S MEN WIVES” fa il paio con il brano precedente per stile e tipologia. Un altro Hard Blues ruvido e ritmico per dondolarsi sulle caviglie. “Wanderland”con il riff e la prima parte cantata fa un po’ il verso ad “Electric eyes” dei Judas priest, per questo l’ho posta tra i brani minori. Non c’è niente di moderno in questo disco. Ma non è questo che ne abbassa il livello; si tratta invece della qualità compositiva dal poco mordente. In una intervista Phil Mogg, il cantante, si compiace di aver voluto dare interpretazioni più blues che rock, ma non è questo il problema; Bonamassa e altri, sempre in questi anni hanno fatto blues con grandi risultati. Molti brani sembrano solo dei riempitivi, ci vuole maggiore impegno o più ispirazione.  La voce di Phil non è sempre bella come lo era in passato, ma nei momenti migliori mi dà un po’ di commovente nostalgia. La chitarra solista invece è sempre gustosa e appassionata. Un disco complessivamente appena sufficiente, consoliamoci con i venti dischi da studio pubblicati prima di questo (gli Ufo sono attivi dal 1970…capperi!)  Sky Robertace Latini

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“WRECKING BALL”   Bruce Springsteen.


Pur volendo io sentire tutto il rock, se non fosse per gli amici non ascolterei nulla al di fuori del metal, e questo perché c’è così tanto nel rock duro che ci si perde beatamente. E poi l’energia che c’è nell’Heavy non c’è nel resto del rock.  Ma visto che un mio collega è un dannato maniaco di Bruce, mi tiene aggiornato su di lui, e così ecco questa recensione. “EASY MONEY” è un brano countreggiante quasi western, con atmosfera ariosa e solare. Cori femminili e violino la ancorano alla tipica americanità. “THIS DEPRESSION” è una canzone calma, liquida e d’atmosfera. Soprattutto la chitarra sinuosa dalle note prolungate dona sensazioni di magico sogno, rarefacendo il suono.  “WRECKING BALL” è la title-track che vuole essere, nonostante l’inizio introspettivo e soft, la vera rock-song dell’album, la canzone da live. Il ritmo è sostenuto solo in alcuni momenti, ma in essi permetterà di ondeggiare ai concerti; e il coro finale coi suoi “oooh ooh” servirà ad incitare il pubblico. In realtà c’è di più che ritmo e orecchiabilità, si percepisce una certa liricità poetica. “YOU’RE GOT IT” è una ballata acustica con chitarra sleazy delle lande americane polverose e infinite. Si respira nostalgica aria di libertà. “ROCKY GROUND” è una canzone soffice e la sua morbidezza è intensificata dalla ripetizione della voce femminile nel ritornello. Appare un dolce brano riflessivo con un tocco di malinconia. Peccato per la breve parte hip hop inserita che rovina la composizione, mentre al suo posto poteva starci magari qualche inserto chitarristico o di cambio accordi. Poco male, ha voluto fare un omaggio ai tempi contemporanei (omaggio che musicalmente l’Hip Hop non merita). “LAND OF HOPE AND DREAMS” fa tornare di nuovo il rock e lo fa con la verve calda della voce di Bruce qui resa al meglio nella sua interpretazione. Certo la frase musicale tra una parte cantata e l’altra che fa melodicamente il verso a “Che ne sai tu di un campo di grano” di Battisti fa sorridere me che sono da questa parte del mondo, bisognerebbe dirgli che si è preso un pezzo di musica italiana. Finalmente un bell’assolo di sassofono che comunque avrei sviluppato molto di più. Cosa dire ?  Un album di livello, il livello appassionato e di classe a cui ci ha abituato un rocker che usa la distorsione con morbidezza, infatti la chitarra non è mai troppo in prima linea, e le tastiere con parsimonia pur essendo una sua caratteristica utilizzarle per dare maggiore corposità alla melodia. Negli ultimi anni le parti di  virtuosismo strumentale sono sparite dai dischi da studio, lasciando tale verve ai dischi live (ed infatti i brani lì si allungano a dismisura). E per quanto riguarda la potenza rock, Bruce ha sempre amato molto anche il lato meno ruvido e infatti negli ultimi lavori lo ha espanso. Del resto egli affonda le proprie radici anche nel blues e nel folk dove le note sono spesso delicate, pur pastose. Springsteen non è musicalmente un provocatore (è più critico nei testi), la sua usuale sonorità è orecchiabile e anche commerciale, ma ciò non lo fa scadere nella banalità. Posso notare che anche stavolta è rimasto fedele a se stesso, rimanendo nell’alveo musicale degli anni ‘70/’80. Questo disco ha la voce in primo piano, è su questa che si strutturano tutte le tracce; quella sua modalità canora strascicata e ruminante che contiene tutto un modo strettamente U.S.A. di esprimersi. Nei momenti peggiori assomiglia a Bob Dylan, ma il più delle volte è corposo e suadente, con un alto livello interpretativo che fa la differenza. E nel suo cantare le parole non sono mai superficiali: il titolo dell’album “Wrecking Ball” si riferisce alla palla d’acciao demolitrice, e infatti prega Dio che intervenga con forza; e altri momenti lirici sono di rabbia o indignazione verso la guida della nazione americana che il Boss ritiene responsabile della crisi economica. L’unica cosa che mi dà fastidio è il difetto di ripetere con la chitarra la melodia della voce, invece di farci un assolo decente (vedi in “Easy money”). Poi si farebbe a meno di brani cantilena come la folk “Shackled and draw”, ormai abusati. La parte iniziale del lavoro sembrava portare alla delusione, invece con i pezzi della parte centro-finale si è ripreso, regalando ciò che tutti si aspettavano: una opera di valore.  Sky Robertace Latini

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(Michael Ende)

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