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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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356. RECENSIONI ALBUM BURNING RUINS 2013 di Sky Robertace Latini



“ASHES OF WAR”    Firbholg (Italia-Foligno) – 2012 - Secondo lavoro della band




Secondo lavoro della band. Non una produzione perfetta, ma un sapore di stampo bohemien, in cui si personalizza un Black Metal quasi pittorico. Questo progetto è la narrazione di una saga epica  ambientata in una terra chiamata Mishall: nel primo album c’è la ricerca di una “gemma nera”, mentre qui le vicende riguardano la difesa del regno di Talash. Il moniker del gruppo (Firhblog) è quello del popolo nomade che discende dai due guerrieri che hanno iniziato la storia.
  “SWORDMAN” contiene una scintilla di energia e contemporaneamente una atmosfera rarefatta che si fondono in un 4/4 lineare che è perfettamente funzionale al brano.  E’ un pezzo che possiede anche riflessi anni ’80 e dove le tastiere sono indispensabili, aiutando la raffinatezza globale che si percepisce anche nel terminare con suono pianistico. “IN THE BLACKEST DUNGEON” è una composizione che usa parecchia rabbia nonostante molto si basi su una essenza folk-metal. I ritmi cambiano almeno 5 volte senza però allontanarsi dalla continuità stilistica. Brano dinamico ed efficace. “THE SHADOWS SONG” appare come la naturale continuazione della traccia precedente ma con un feeling più dark e oppressivo. Un black-doom  compresso e graffiante grazie anche allo screaming melmoso che successivamente evolve in una esplosione ruggente, ma altrettanto oscura dove la voce dallo scream passa al growl corposo. “BEYOND ALL HOPES” usa , come anche era successo in “In the blackest dungeon”, un ritmo da tarantella che aumenta il senso folk. La batteria cambia anche in altri connotati ma rimane in qualche modo nella evocazione folk fino al suo rallentamento dove il pathos si fa struggente. La parte finale cerca un sound più soft ma non in stile ballata, è anch’esso un buon momento folk, che riesce comunque a rimanere nel solco dell’asprezza. Brani minori: “Intro + Wolmos gathering” è la traccia che inizia l’album; intro e brano in sè contengono un incipit epico-sinfonico. Il Growl del cantato gratta cattivo ma sembra l’unico elemento BlackMetal, dato che la musica rientra in canoni tradizionalmente più Heavy Metal, persino leggermente N.W.O.B.H.M. quindi assolutamente non estremo. Nel complesso è un imprinting forte per l’album, anche se non appare personalissimo. “Faraway realm”, nel quasi Iron-maideniano afflato, usa un blasting batteristico incessante che avvolge algido l’ascoltatore, passando poi ad un middle-time con un riff anni ’80, su cui si innesta un giro folk un po’ banale. Il brano dà l’idea di non essere stato sviluppato al meglio, e rimane l’episodio meno riuscito del disco. “Ashes of war” può rientrare nel più classico Black Metal, rimanendo pulito e usando variazioni sul tema ben collegate. Manca uno scatto improvviso a caratterizzare il brano che invece è bloccato in un songwriting senza alti e bassi. Io ero in attesa come se dovesse succedere qualcosa. “A Dying empire-Domination” chiude nel modo giusto il lavoro, con una arrembante cascata di furia, scaldata inizialmente con suoni morbidi. I clangori della distruzione finale sono l’automatico epilogo di un pezzo da battaglia. Però dentro la song si trovano passaggi raffinati che si collegano tra loro in modo da mantenere fluida la trama e rendere la durezza della composizione meno soffocante. Tutta la traccia dà l’idea un po’ di già sentito ma nell’insieme regge, creando tra i suoni della guerra anche un po’ di malinconia. Possiamo dire che si tratti di un unico brano, più che di una raccolta di canzoni. L’album va ascoltato nella sua interezza come un viaggio le cui atmosfere avvolgenti tracciano un unico sentiero e una unica destinazione. Ciò che viene fuori è una attenzione alla globalità delle sensazioni più che una caratterizzazione dei pezzi per differenziarli; e anche dove singolarmente i pezzi non eccellono, il fatto di entrare nel racconto sonoro in modo continuativo, elimina le debolezze compositive e riesce a coinvolgere l’ascoltatore attento, fino a farlo passare ad uno stato di pseudo-trance. In tutto il lavoro c’è un contrasto stilistico tra morbido e duro che viene sviluppato non in momenti separati ma simultaneamente, soprattutto per la presenza delle tastiere.  La struttura è circolare e le ripetizioni ipnotizzano. A rafforzare il senso narrativo come un unicum stanno anche i testi che realizzano un concept album. A parte alcune ingenuità, mi pare che la band sappia coniugare l’ispirazione con la tecnica. La voce di Sir Woluk, che di base è Scream sconfinando talvolta in suoni più gutturali, mi piace perché rimane comunque intelleggibile. Musicalmente non parlerei di Black Metal puro, ma non solo per la presenza di sonorità folk o epiche, ma anche per i continui agganci col metal degli anni ’80, e infatti se di Black vogliamo parlare, a volte sono vicini ai riff dei Venom meno accelerati; da essi però si allontanano per le aperture di ampio respiro.  Sky Robertace Latini

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“DRONES OF THE AWAKENING”    Eyeconoclast (Italia-Roma)  -  2013

 Sono rimasto sorpreso positivamente, perchè rispetto alla giornata dal vivo a cui ho assistito, l’album riserva una certa dose di ricercatezza. Un Death metal selvaggio ma realizzato con ordinata follia. Siamo di fronte ad un muro di compatta furia, ma assolutamente intelleggibile. Brani minori: “Proclaiming from dead dimensions” è un pezzo devastante  che sfreccia con il suo blasting furioso. E’ perfetto per aprire l’album e presentare l’impeto che poi è presente per tutto il disco. Non è male. “Anoxis waters” accenna un suono quasi industrial, ma è insufficiente a rendere efficace la song, che risulta violenta ma non molto personale.“Obsolesced” è forse la traccia meno bella, troppo poco caratterizzata, diciamo derivativa. Mi piace in alcuni momenti la batteria, quando è meno scatenata ma sottolineatrice dei passaggi sonori. “Hallucinating in genetic disarray” lascia un po’ da parte la velocità per adagiarsi prevalentemente su un middle-time pesante. I cambi di ritmo però sono presenti anche qua. Il brano è interessante pur mancando di picchi espressivi. Sembra monco, non sviluppato del tutto. “Invoking carnage (racing blind)” è un brano di medio valore basato sul groove e con pochi inserti ad effetto. “Executioner (slayer of the light) vuole chiudere l’album con ferocia (che poi non è maggiore che negli altri pezzi) ma cade nella banalità sebbene abbia buoni spunti (come l’assolo chitarristico alla Motorhead). Forse con “Obsolesced” è l’episodio meno valido. “RISE OF THE ORGAMECHANISM” è distruttore come la prima traccia, ma è più punkeggiante nel cantato, con uno sviluppo più variegato nel groove. “DAWN OF THE PROMETHEAN ARTILECT” continua con la velocità ma è interessante per gli inserti riffici. E’ cupo in vari passaggi growl, ma la chitarra solista appare più aperta nei due momenti in cui si presenta, anzi, nel finale diventa quasi melodica, e alleggerisce un brano invece tra i più furibondi. Il pezzo è dinamico e riesce ad avere un sua linearità nonostante la pienezza sonora. “SHARPENING OUR BLADES ON THE MAINSTREAM..” utilizza meno il blasting ipertecnico per una batteria a volte più cadenzata, ma nell’insieme è il pezzo dove la sezione ritmica mi piace di più. Groove d’effetto e composizione di più ampio respiro. Più vicino al Thrash che al Death. “XXX-MANIFEST OF INVOLUTION” è una canzone divertente. Solo uno educato all’ascolto metal riesce a percepire come funny un suono così cupo e virulento. Bella la parte dove la batteria gioca coi riff e  quella con l’assolo, situazioni migliori rispetto alla linea vocale. “MOTHER GENOCIDAL MACHINE” presenta fra i suoni anche una chitarra melodica che tesse una trama sottostante la ritmica incessante e i molteplici riff. Buonissima l’espressività vocale data dalla fusione di growl e scream che si alternano rapidamente. Un album interessante e costruito con una ottima produzione pulita. Anche il cantato, quando passa dal growl allo scream lo fa con grande abilità, voce corrosiva gestita bene (che non mi pareva così pulita al “Burning Ruins…”). Gruppo che non mi ha ispirato al festival che però rivaluto all’ascolto di questo lavoro. Nonostante la velocità; la corposità del suono piena di “cose”, e i molti cambiamenti di ritmo e di riff, non c’è caos. C’è varietà, ma in modo composto, mai disordinato, ciò rende il sound assimilabile ed efficace.   Sky Robertace Latini
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“REQUIEM FOR US ALL”    Modern Age Slavery  (Italy-Emilia Romagna)  -  2013

E’ strano come un bell’effetto dal vivo non si tramuti in dischi all’altezza. C’è tecnica e potenza, ma il songwriting non sempre risulta efficace. Un Death Metal che ama toccare anche le corde Black, spietato quindi e oscuro al contempo. Nell’insieme non banale, ma che oltre ad essere furioso avrebbe dovuto trovare soluzioni più creative. Quando ci prova ci riesce. “OBEDIENCE” alza il livello dell’album con un bel pezzo variegato e pieno di atmosfera oscura. Non è solo violenza rude, è invece capace di portare una certa raffinatezza di groove e di effetti. Sfiora l’Industrial con la sua produzione pulita. Il cambio di ritmo al termine è troppo breve, doveva preludere a qualcosa di maggiormente consistente, infatti nell’ascoltarlo mi si è creata una aspettativa delusa dal finale monco. Si trattava di una sonorità strisciante e disturbante che meritava più attenzione. “”IVORY CAGE” è forse il momento più esaltante del disco. Molti i cambi di ritmo e la voce alza il tono anche verso lo scream, evitando l’appiattimento sonoro. La base ritmica è quella che piace a me, senza esagerare col blasting. Death e Black si mescolano con grande sensibilità, e insieme ne aumentano il pathos drammaturgico, fino ad arrivare ad un doom pesante e ruvido che mette fine alla traccia. “OPIATE FOR THE MASSES” è invece la song dove il blast-beat ci sta alla perfezione. Ritmo tiratissimo (ma che sa cambiare) e anche riffing pieno che riesce a dinamizzare con eccellenza un arrangiamento ricco. Ricchezza anche vocale con le sue incursioni corali e di sofferenza lacerante. “ICON OF A DEAD WORLD” usa un middle-time dal groove ganzo, ma la linea vocale è perdente, poco caratterizzata. Non basta andare sullo scream per arricchirlo. Non male come composizione, però a volte sembra che si sarebbe fatto meglio a far tacere il cantato lasciando agli strumenti la trama che povera non è. Bello il finale riverberato, pregno di tenebroso horror che dà perfettamente l’idea di “mondo morto”, col quel growl morboso e funereo che stavolta è usato con discernimento. Un assolo maligno di chitarra ci sarebbe stato benissimo, perché ragazzi, non avete mai quella scintilla in più? Brani minori: “Requiem for us all” (prima traccia) è un susseguirsi di scariche violente, accompagnato da un growl poderoso ma troppo abbaiante; nel complesso troppo piatta. “The dawn prayer” è in linea con la prima traccia, anche se leggermente più interessante e varia. A salvarla sta l’unico assolo dell’album, breve ma fresco. “The silent death of cain” si cimenta in  secca brutalità, con un blast beat troppo esagerato, che rende asfittica l’atmosfera simil Black Metal. Ne prerisco la seconda parte, cadenzata nel tempo medio, dove non si doveva assolutamente cantare; viveva bene da sola e aveva la sua bellezza. Per poco non l’ho posta tra gli episodi migliori. “Slaves of time” perde in freschezza. Un brano compatto con alcuni bagliori interessanti che però non lo salvano da una certa scarnezza. “Requiem for my nation” traccia musicalmente inutile. C’è una bella versione della cover dei Sepultura:  “Arise” è fatta bene.  La musica è bestiale ed estremamente malata, in questo disco assolutamente anticommerciale. Un cantato troppo coprente. La parte strumentale sembra troppo spesso solo un accompagnamento della parte vocale. Il growl e lo scream, tecnicamente, non sarebbero male, ma sono le linee cantate a non donare il meglio della band. Troppa inflazione di voce, usata sempre e comunque, mentre spaziare di più con la strumentazione avrebbe giovato (si sente che ne sarebbero capaci). A volte il blast-bite, altre volte il cantato, rendono soffocato l’effetto sonoro, e non nel senso positivo che Black e Death devono avere. Assente il mondo virtuoso dell’assolo che avrebbe tirato su i pezzi modesti con uno sprazzo di elettricità. Una caratteristica che si propone varie volte è il terminare le tracce con un finale dal ritmo rallentato rispetto a tutta l’aria della song, cercando una soluzione atmosferica mortifera, opprimente e apocalitticamente cupa, volendo sottolineare il senso di morte che evidenziano i titoli dei brani ma anche dell’album stesso. E il risultato è ottimo. Bravi a gestire il palco dal vivo, non dei maghi dell’atto compositivo;  comunque quando hanno il momento ispirato trovano dei passaggi forti che colpiscono nel segno.   Sky Robertace latini
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“REVENANT”   Zombie Scars ( Italy-Toscana)   2012

Un thrash-metal che non delude le mie aspettative. La band si conferma valida come mi era parsa dal vivo.  Siccome il livello si mantiene sufficientemente alto in tutti gli episodi (certo la recensione che ho letto di “Heavy metal Heaven” ha esagerato a dare 92/100; e dice pure: “Probabilmente il quartetto potrà fare anche di meglio in fututo”), e tutte le tracce però sono all’interno di uno stesso compatto schema compositivo, senza mai essere delle mere copie una dell’altra, ma senza nemmeno spiccare troppo una rispetto all’altra, è difficile decidere quali brani siano minori. Decido di affidarmi all’istinto e meno alla ragione; ecco il risultato. Brani migliori: “BACKYARD GRAVEYARD”, dopo una chitarra acustica soft, parte una bordata ritmica assolutamente corposa e avvolgente. Globalmente il groove si mantiene sempre dinamico e incisivo. Anche il basso fa la sua parte elaborando una lenta oppressione prima di un sentito assolo. Forse la composizione migliore. “BLEEDING BLACK” scivola via in modo diretto con riff semplice ma portando nella ritmica una cadenza quadrata e solida, con passaggi ben costruiti. Brano meno thrash e più votato al metal classico anni ‘80, sebbene il ritornello sia quello tipico di certo metal americano fine anni ‘90. “1987” risulta una ballata corale con il piglio giusto senza risvolti mielosi nonostante nel testo si accenni al pianto. Una piccola espressione di leggerezza che anche l’assolo sa supportare emozionalmente. Mi piace il modo scelto per terminare la traccia. “HIGH TIDE”  inizia con middle-time per poi articolarsi diversamente nei vari passsaggi tra oscurità e durezza. Un pizzico di Stoner e di Doom, ma la zona aggressiva è così maggiormente sottolineata. La chitarra fa i suoi effetti alla Zakk Wylde, e la voce s’incattivisce più che negli altri pezzi. “ON THE DAY OF THE DEADS” esprime una snellezza strutturale che risulta di immediata assimilazione. Riff portante corposo e sostenuto. “DEAD EYES” è un brano che oscilla tra enfasi evocativa ed essenzialità ritmica. Davvero qui la ritmica la fa da padrona, nonostante un bell’assolo chitarristico degno di essere goduto appieno, tanto che dispiace non si prolunghi ulteriormente. Brani minori: “Blessed are the devil” parte subito a martellante velocità come fosse un pezzo dei Motorhead, ma cambia di ritmo nel procedere. La linea vocale è molto lineare su un’unica nota, amelodica, con una verve punk-core. E l’impatto è immediato. La melodia la si trova ben congegnata, e particolarmente morbida ma non zuccherosamente commerciale, nel ritornello corale. Il tutto è arricchito da un bell’assolo di chitarra. “Shivers” si affaccia in modo scuro e sinuoso. Ritmo variegato su una base cadenzata che può essere usata bene in sede live. Assolo breve ma ficcante. C’è un che di tormentato nell’atmosfera di questo pezzo. “Revenant” porta bene l’album in quanto title-track, infatti è un ottimo momento. Bella la doppia voce su due tonalità. Qui l’assolo non è irresistibile, ma il groove è intrigante. “The riddle”  si dipana su di un groove bombastico, e nella batteria non c’è un appiglio sempre uguale al quale l’ascoltatore possa riferirsi, rendendo così più interessante il procedere. Però la cosa non evolve, quando sarebbe stato bello approfondirne il potenziale. “Spirits” sembra avere un tono leggermente leggiadro soprattutto nel ritornello (I can see…/I can feel), ma in realtà non si tratta di una happy song; ha invece un portamento più serioso di quel che appare. La ritmica è robusta e viene appiattita la possibilità melodica del cantato così da non diventare troppo orecchiabile (lo dico in senso positivo). Assolo troppo breve pur partito con vitalità. Bello il groove del finale. Non è musica brutale, c’è un mucchio di energia e di toni pesantemente metal, ma si evince raffinatezza e personalizzazione di un modo genuino di sentire la musica da parte di questi musicisti. Tendono a ritornelli orecchiabili, ma mai fastidiosi, anzi ben portati lasciando nella costruzione di ogni brano la durezza e la potenza che eliminano rischi di superficialità compositiva. David Riganelli non sarà un virtuoso del canto, ma non è mai fuori posto. Quasi non si percepiscono indecisioni nella sua interpretazione (piccoli cali tecnici in pochi punti), nemmeno del brano ballata, campo dove spesso si rischia l’autogol. Gli assoli sono taglienti il giusto e in essi c’è quel gusto del metal d’altri tempi che affiora con bravura tecnica. Il sound è moderno comunque, e deve molto all’America. Ma se lo stile Linkin’Park o Nickelback voleva entrare nel loro songwriting, non c’è riuscito; bene! La sezione ritmica è trascinante e assolutamente centrale nel sostegno sonoro. In conclusione si denota da studio la stessa grinta che viene espressa dal vivo.
Questa copia dell’album in mio possesso è una di quelle lanciate dal palco dalla band che è finita al volo nelle mani, guarda caso, di mio fratello che stava dietro (io invece me ne stavo in prima fila che non posso fare altrimenti).   Sky Robertace Latini
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“THE DEVIL’S CLAW”     Steel Crow   (Italy-Perugia)    -    2012

Chiamiamolo un mini-album di sole 5 canzoni (le tracce sono sette ma due sono intro ed outro). Il risultato non è entusiasmante ma alcuni spunti sono interesanti e andrebbero sviluppati senza entrare in momenti derivativi che li spersonalizzano. Il Power-HeavyMetal che ricalca lo stile degli anni ’80 è uno dei miei preferiti, ma il solo fatto di suonarlo non salva nessuno alle mie orecchie di fruitore accanito. “ANGEL IN CHAINS” non è perfetta nell’esecuzione però come brano non è male. Ricorda i loro compaesani Interceptor degli anni ’80 (storia del metal umbro) sia per song-writing che per anima metallica, voce compresa. Ritmo medio e velocità supersonica si legano per dinamizzare con freschezza un brano che, pur non discostandosi di Maiden, appare un buon episodio non troppo copiato, anche se non così personale. “STEEL CROW” è il pezzo migliore del disco. Lineare, cadenzato e dagli assoli fluidi. La voce non esagera e senza voler creare troppa complessità ed enfasi, colpiscono nel segno grazie al fatto di essere più diretti. Brani minori: “Gates of Inferno”, l’intro, va nominato solo per la recitazione del canto dantesco (il famoso “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”) di ingresso all’Inferno. “Twilight of season” è dinamica ed energica, ma risulta troppo derivativa degli Iron Maiden, e poi è solo una breve scheggia che sarebbe dovuta durare più a lungo. E’ il brano dove il cantante Gabriele Santoni si esprime al meglio. “The devil’s claw” è un altro esempio di come si “argirano” gli Iron. Acuti fenomenali non sempre gestiti al meglio. Anche qui si spezza troppo presto la song. “Fight for your life”, nel suo giretto iniziale di riff, fa venire in mente i Saxon del brano “Wheels of steel” e siccome fa parte della struttura portante di una parte della composizione non si può soprassedere. E anche il riff successivo non è una novità. Qui i cambi vocali sono al limite della storpiatura della linea melodica. Produzione non perfetta che però non stonerebbe, se non fosse per il fatto che non sempre la voce è all’altezza, pur avendo potenza. Gli acuti del singer Gabriele Santoni spesso sono ben alti ma andrebbero dosati con maggior meticolosità. Tutto riconduce agli Iron Maiden con sprazzi Judas Priest e Saxon. Non appare un gruppo che possa donare qualcosa di nuovo al mondo metal.  Dal vivo ci si diverte perché sanno suonare e perché uno se ne frega della poca personalità, ma da studio le cose vengono godute diversamente. Consideriamo però che nel frattempo la formazione è mutata, si aprono nuove prospettive dal punto di vista compositivo. Attendo al varco. Curiosità: il moniker. Parla il bassista Mauro Alocchi: “In verità inizialmente nel 2006 ci chiamavamo proprio Steel Crown, ignari che esistessero effettivamente degli omonini italiani che facevano proprio lo stesso genere, fattostà che nel 2007 abbiamo cambiato nome in Steel Crow, togliendo volgarmente la "N" proprio perchè gli originali Steel Crown stavano per promuovere una reunion e gentilmente ci hanno avvisato con una mail dell'inconveniente, non c'è una vera ragione dietro la scelta, suona bene suona facile e diretto e non ci siamo fatti troppe domande. Il corvo è una figura abbastanza mistica, che accompagna la morte”. Per chi non lo sapesse gli Steel Crown sono una band storica già esistente negli anni ’80.   Sky Robertace Latini




















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(Michael Ende)

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