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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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384. IL PREGIUDIZIO RELIGIOSO SUL WEB - RIFLESSIONI DI PAOLO RAFFAELLI di Roberto Rapaccini



Paolo Raffaelli  è stato parlamentare dal 1994 al 1999 e sindaco di Terni dal 1999 al 2009. È un giornalista professionista, e attualmente è  membro della redazione del TG regionale RAI dell' Umbria.


Dopo il precedente “Paura dell’Islam” (Cittadella 2012), il nuovo libro di Roberto Rapaccini “Il pregiudizio religioso sul Web - Internet da punta avanzata della democrazia a strumento di omologazione del pregiudizio”, si pone naturalmente come secondo capitolo di una ricerca in evoluzione,  attualissima e di grande momento. Quello di Rapaccini è un lavoro sul pregiudizio come combustibile che alimenta la paura, a cui l’autore contrappone una linea interpretativa che fa perno sui valori di trasparenza, cultura, apertura, pari opportunità, equità, come antidoti ai fondamentalismi di ogni segno, per uscire dai nascondigli e dall’ombra, per una vita vissuta in piazza contro la paura, nel dialogo che alimenta la buona comunicazione, quella che implica conoscenza e comprensione reciproca e rigetta l’uso della parola come arma offensiva. La Rete è uno strumento potentissimo di diffusione dell’informazione: tutto, dall’esperienza quotidiana dell’adolescente alle “Primavere arabe”, sta lì a dimostrarlo. Rapaccini avverte che il Web può però, in modo altrettanto potente e diffusivo, diventare strumento di diffusione del falso e della deformazione. Il computer non ha alcune spia rossa che segnali la falsità, la parzialità o la strumentalità di una notizia: vero e falso sulla Rete sono distinguibili solo alla luce della conoscenza pregressa, della consapevolezza critica, della capacità di incrociare e pesare le fonti, di rimuovere i rumori di fondo che il navigante possiede, il buon senso non attrezzato può non bastare. In quanto a capacità diffusiva online, potenzialmente il malintenzionato e il povero di spirito, il terrorista e il razzista hanno la stessa potenza di voce del filosofo, del santo e del benefattore.E’ questa la linea d’ombra della maggiore rivoluzione tecnologica dei tempi moderni e – avverte Rapaccini – intolleranze religiose, odi interetnici, fondamentalismi, discriminazioni razziali su questa linea sono in agguato.  Certo, non è questa una ragione per spegnere il computer, Rapaccini lo tiene anzi ben acceso.L’uomo ha sempre dovuto fare i conti con gli effetti collaterali delle sue conquiste, dal fuoco all’atomo: sfuggire all’incendio della foresta preistorica  provocato dal fulmine, portandone una scintilla a riscaldare la caverna; superare l’equilibrio del terrore della corsa agli armamenti e ribaltare in impieghi di pace l’energia devastante di Hiroshima; passaggi epocali a cui non è esagerato affiancare la rivoluzione tecnologica delle comunicazioni in cui ci troviamo immersi, soprattutto per le sue conseguenze sulle forme di confronto e di relazione, da cui scaturiscono le forme di legislazione e quelle di governo che gli uomini si danno. I temi del pregiudizio e dell’omologazione, sottesi fin dal titolo alla ricerca di Rapaccini, diventano così questioni chiave per la convivenza civile e la democrazia. Mezzo millennio fa, all’alba della contemporaneità, l’occidente ha già fatto i conti con una rivoluzione in tutto e per tutto comparabile con quella attuale. La globalizzazione totale della Rete, a ben vedere, non è che l’estensione dell’altra globalizzazione che tra la metà del ‘400 e la fine del ‘500 estese a dismisura i confini materiali del mondo e le possibilità di comunicazione e formazione delle singole persone, reinventando, in forme del tutto nuove, tanto l’individuo che la comunità. Furono le navi di Colombo, Vespucci e Magellano, la Bibbia in volgare tedesco di Lutero, i torchi a stampa di Gutemberg  a fondare quella globalizzazione che ebbe, insieme a una smisurata carica di progresso, contropartite terribili: la “Reconquista” della Spagna ai Re cattolici, con la cacciata delle comunità  arabe ed ebree, spezzando un’esperienza storica in cui i figli delle tre religioni del libro avevano convissuto per secoli, con travagli ma in maniera fertilissima, fondante per la nostra cultura contemporanea e per la nostra stessa identità di europei, sui due lati del Mediterraneo; l’ondata inflazionistica prodotta dai metalli preziosi delle Americhe; il genocidio, col fuoco, la spada e la malattia, delle popolazioni indigene conquistate; la perdita di centralità del Mediterraneo e lo spostamento, che continua mezzo millennio dopo, del baricentro d’Europa verso l’Atlantico e il mar del Nord. Quando pensiamo alla rivoluzione globalizzante dei giorni nostri, è a quel gravoso bilancio cinquecentesco costi-benefici che dobbiamo avere il coraggio di fare riferimento, altrimenti correremmo il rischio di non cogliere il respiro e la portata della sfida epocale che si presenta alle generazioni del terzo millennio.Quello che ci troviamo davanti è infatti – Rapaccini ne è ben consapevole  -  un mondo in generale, radicale e inedita trasformazione:  cambiamento tecnologico, dunque, ma non solo, soprattutto cambiamento culturale e relazionale (perché poi, è bene ricordarlo, la comunicazione è solo il mezzo attraverso il quale si rende possibile la relazione: i soggetti non sono mai le voci e le parole, i soggetti sono e restano le persone che si relazionano attraverso le voci e le parole – e a questo proposito la rivoluzione tecnologica attuale potrebbe essere l’occasione per tornare a riscoprire, con occhi nuovi, il vecchio McLuhan, per vedere quanti danni ha fatto, senza alcuna sua responsabilità, l’applicazione pratica superficiale, spregiudicata o dogmatica dell’identificazione tra medium e messaggio, coerente peraltro con l’altra deriva culturale del tempo, che pretendeva che i fatti fossero inesistenti, o comunque morti, e in loro vece esistesse solo l’interpretazione). Parliamo di una grande trasformazione che ha preso le mosse dalla crisi del sistema planetario bipolare, che con la caduta del muro della guerra fredda europea ha fatto teorizzare a qualcuno la “fine della storia”. L’attentato alle torri gemelle è stato uno dei tanti segni tragici del fatto che la storia non finiva per niente anzi, come la storia fa dalla notte dei tempi, ricominciava, in forme del tutto nuove, diverse, largamente inattese. Qualcuno più avveduto di Francis Fukujama,  ha creduto di fornire una chiave di lettura di questa nuova fase, parlando di “Scontro di civiltà”: tra le culture e le fedi ci sarebbero faglie di rottura indomabili come i terremoti. Forzando lo schema di Huntington, che andrebbe liberato dalle interpretazioni superficiali e ricondotto alla sua fertilità, è stato facile per i semplificatori votati alla costruzione del nuovo nemico unificante, trasformare in senso comune il dato che se non c’è più l’impero del male sovietico, questo è stato pienamente sostituito dall’impero del male del terrorismo fondamentalista musulmano (poco importa che il sistema dittatoriale di Saddam fosse del tutto laico o che proprio l’applicazione di questo schema, innalzando muri e sparando nel mucchio, abbia finito con il favorire e accelerare il passaggio delle giovani generazioni palestinesi dalla laicità al fondamentalismo).Questo meccanismo di “costruzione del nemico”, per dirla con Umberto Eco, ne riproduce uno che è in realtà  vecchio come il mondo e in questi tempi di trasformazione è stato l’altra faccia di una altrettanto radicale rivoluzione culturale di segno iperliberista, secondo un schema semplice e potentissimo: l’unico bene è la libertà economica senza costrizioni né regole, noi ne siamo gli alfieri; ergo noi siamo il bene, dall’altra parte c’è l’esercito del male composto da stranieri, musulmani, terroristi, socialisti, (per il movimento dei “tea party”, Barack Obama riassume in se tutti e quattro questi caratteri). Così la contrapposizione tra  Occidente e Islam è diventata, dopo la guerra fredda – Rapaccini lo dice in maniera lucidissima – la risposta alla fondamentale necessità di ridefinire “il” nemico.Risposta sbagliata concettualmente, ancor prima che eticamente, perché le contrapposizioni binarie oriente-occidente, libertà-costrizione, Stato-mercato, persona-comunità, individuo-autorità, bene-male, suggestive come tutte le semplificazioni dicotomiche, finiscono con l’essere avulse da un contesto che è ormai quello di un processo di globalizzazione sempre più unificante, che lascia semmai, e magari invoca, spazio per la salvaguardia delle diversità, della pluralità delle radici, delle specie, dei segni delle culture ma è sempre meno riconducibile a una logica bipolare, di contrapposizione di due schieramenti che ambiscono all’assoluto.E si capisce bene allora come il complesso della ricerca di Rapaccini, nei suoi vari capitoli, si traduca in un  viaggio attraverso la fine di un’epoca, dentro una fase di travaglio caratterizzata dal massimo di disuguaglianza (si pensi alle ricerche di economisti come Stiglitz e Krugman sui costi economici, prima ancora che sociali, ambientali, culturali ed etici della disuguaglianza, quando la forbice tra redditi minimi e massimi, tra redditi da produzione e parassitari, si allarga a dismisura) e contemporaneamente dal  grado zero effettivo di tolleranza delle diversità culturali (il che non impedisce che vengano assecondate, favorite, veicolate e vendute  tutte le mode, anche le più bizzarre, purché artificiali, purché non espressione di una effettiva autonomia critica, di una soggettività della personalità, di una centralità dei bisogni primari di vita, accoglienza, relazione).Insomma: compresenza di omologazione e sperequazione al massimo grado e contemporaneamente. L’unica conseguenza possibile di questo scacco concettuale è un mix di frastuono, deformazione e falsificazione: magistrale la denuncia, a pagina 114 del “Pregiudizio religioso”, di quella schizofrenia del mercato che da una parte spinge per moltiplicare indiscriminatamente le fonti di informazione, incurante del rumore di fondo e della babele dei linguaggi, e dall’altra mette sul mercato, a misura delle necessità dei regimi più oscurantisti, strumenti volti a paralizzare o cancellare il libero dispiegamento del pluralismo dell’informazione.Quel mix di deformazione e falsificazione, che si traduce in omologazione e discriminazione che già a cavallo degli anni ’60 e ’70, intelligenze europee lucide e sensibili, pur tra loro diversissime come impostazione, come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini, denunciavano in interventi pubblici con larga diffusione e modesto ascolto. (Si rileggano le interviste di Calvino, ora raccolte da Mondadori, con le reiterate denunce delle “truffe degli economisti” che da modelli astratti e sempre smentiti fanno discendere previsioni  e ricette di governo fallimentari ma non per questo meno sacralizzate). Roberto Rapaccini fa ricorso, opportunamente alla categoria della “banalizzazione” per stigmatizzare il modo in cui, nella Rete finiscono per essere minimizzati, e apparentemente digeriti, anche i segnali più nefasti di una deriva culturale, di crisi delle relazioni civili: dal razzismo, all’antisemitismo, dall’ideologia della violenza fine a se stessa, al negazionismo dell’olocausto.La riduzione a burla, a barzelletta, dei drammi del secolo breve, che a volte si è vista praticare anche da uomini di Stato, è appunto il cuore di quella banalizzazione che traducendo la tragedia in farsa produce appiattimento, assuefazione, perdita della memoria storica, azzeramento della consapevolezza critica, cancellazionedella capacità di articolare e distinguere, di cogliere e rispettare, appunto, le diversità.Un’identità che si definisce esclusivamente attraverso la contrapposizione rispetto a un nemico costruito, è una identità riflessa, ed è il riflesso di una finzione, una identità inesistente in se.  Il contesto che Rapaccini indaga con particolare acutezza è proprio quello di un uso della Rete come moltiplicatore di luoghi comuni, di falsi, di insulti, di calunnie, di semplificazioni abnormi e di addebiti  indimostrati  che, nella banalizzazione che mette sullo stesso piano la battuta da bar e l’aforisma del filosofo, produce una mostruosa marmellata concettuale in cui si può trovare materiale per dimostrare tutto e il contrario di tutto.  Accanto a questa categoria di pratiche deformanti  se ne affianca un’altra, più subdola e strutturata, quella che tiene insieme l’ermetismo della tecnica e la drammatizzazione delle  teorie del complotto, le presunzioni di oggettività e la rimozione sistematica dei dati analitici, razionali, di conoscenza critica. Banalizzazione dei messaggi fino al chiacchiericcio da bar; drammatizzazione del contesto fino a trasformare ogni altro in un mostro; rimozione dei dati di conoscenza del contesto, delle sue articolazioni e delle sue diversità; oggettivazione del dato trasmesso, che trasforma in una verità rivelata ogni illazione e ogni pettegolezzo; tecnicizzazione vera o asserita, (che si può realizzare con l’uso di parole chiave sacralizzate o di dati illusori) di un discorso che per questa via sfugge all’argomentazione.Ognuno può agevolmente trovare, in un’ora di navigazione, decine di esempi di disinformazione (strutturata o spontanea, la seconda a volte è più pervasiva e dannosa della prima) fondati sulla filiera banalizzazione-drammatizzazione-rimozione-oggettivazione-tecnicizzazione, e risiede qui, a mio parere, il nodo da sciogliere, sia sul versante teorico che su quello pratico, per fare di quel formidabile strumento di comunicazione che è la Rete, un effettivo luogo di relazione. Perché se la Rete non sarà un luogo di relazione vera, di qualità della comunicazione, e non solo di quantità, allora non potrà che essere un luogo di conflitto, freddo e profondamente asimmetrico, dove si combattono con armi non convenzionali ma potentissime, guerre economiche, di cultura, di religione, di dominio altrettanto non convenzionali, in cui le tecniche e le strategie di egemonia evitano al dominatore la fatica di opprimere il dominato e lo inducono a disporsi spontaneamente ai comportamenti, ai consumi, ai giudizi e alle scelte funzionali al soggetto egemone: ci si può sentire totalmente autonomi e liberi ed essere totalmente asserviti. Un po’ specchio deformante, un po’ lanterna magica, un po’ cartoon, un po’ teatro dei pupi, la realtà virtuale si sovrappone ai fatti e li sovrasta, riplasmando le coscienze in modo sottile e impercettibile, ma profondo e durevole.  Vale la pena  scomodare  Sun Tzu e la sua “Arte della guerra” per intuire che ci sono strategie vittoriose che non richiedono scontri diretti e spargimenti di sangue, che spesso basta disorientare il nemico, confonderlo, spiarlo, costringerlo a pensare, a muoversi e ad agire come si vorrebbe che facesse?Questa, a me pare, è oggi, e in un non breve avvenire, la posta in gioco sulla Rete, che è evidentemente in se un sistema neutro di strumenti e di artifici, che viene qualificato solo dalla qualità, dalla maturità e dalla consapevolezza del suo contenuto d’utilizzo, proprio come il fuoco, la lama, l’atomo.Il lavoro di Rapaccini, partito dalla disinformazione sull’Islam, proseguito con l’indagine sulle guerre etniche e religiose combattute con armi improprie sul Web, non potrà, credo,  che andare avanti illuminando il tema del rapporto tra il terreno più moderno del sistema di relazioni tra gli umani, la Rete e quello più antico, la democrazia. Le primavere arabe, che troppo presto hanno preso i colori dell’autunno (ma un’altra stagione verrà), stanno li a dimostrare che Rete e agorà, individuo e piazza, soggetto e comunità debbono stare insieme, che pensare di sostituire la Rete all’agorà apre le porte alla catastrofe. Altre esperienze, a noi ancora più prossime, stanno li a dimostrare – mi pare – l’evidenza di questo dato. Guardarsi negli occhi, argomentando, affezionandosi reciprocamente, è più che mai necessario, per attutire il rumore di fondo, per disinnescare la filiera perfida e fasulla che tiene insieme la banalità e la drammatizzazione, la falsa oggettività e le rimozioni di comodo, sotto la maschera della tecnicalità: la nube purpurea, fatta di parole vuote di senso e di immagini solo virtuali, che maschera la strategia di costruzione del nemico e alimenta il pregiudizio con il combustibile della paura, si dissolve solo così.



PAOLO RAFFAELLI                                                   Terni, 12 dicembre 2013


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IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI

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