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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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433. RECENSIONI 2014 di Sky Robertace Latini


“ISOLATE AND MEDICATE”  (2014)    Seether (Sudafrica)



“Carino” è l’aggettivo che per primo mi viene in mente  ascoltando questo  ottavo album dei sudafricani Seether. Niente è fuori posto, è proprio un album carino. Un insieme ben conformato di Nirvana con 10 chili in più (“See you at the bottom” e “Keep the dogs at bay”); i Foo Fighters ricoperti da una patina di serietà (“Words as weapon”); una spolverata di Stoner-rock annacquato (“My disaster”); i Beatles più innocui (il ritornello di “Suffer it all”); i Green Day leggermente smorzati (“Same damn life” e “Watch me drown”) e un po’ di folk-rock americano ovattato (“Nobody praying for me”). A volte mancano i bei riff, e quando ci sono, a loro non segue il mordente adatto. Niente di così terribile, il disco si ascolta bene e alla fine, se si decide di ascoltarlo più volte, può essere canticchiato quasi naturalmente. Però il livello globale non è memorabile, pur riuscendo a scrivere senza perdersi; il lato orecchiabile non diventa commerciale né in senso positivo né in senso negativo; la commercialità positiva sarebbe quella di fare canzoni che colpiscono e afferrano immediatamente senza essere troppo catchy, mentre quella negativa sarebbe quella di scrivere brani di semplice presa che però avrebbero un pregio di apparenza estetica forte, e mancano anche questi. Insomma un disco musicalmente leggerino e rassicurante, un po’ troppo rassicurante per un disco rock, che solo a sprazzi diventa Metal (“Suffer it all”). “SEE YOU AT THE BOTTOM” dimostra che per realizzare qualcosa di forte la band ha bisogno di essere poco personale e di allacciarsi al vecchio grunge. Se Kurt Cobain fosse ancora vivo, avrebbe la pancia e canterebbe qui come un vecchio marpione. Stesso ritmo medio e similari vocalizzazioni prolungate con inserti urlati. “SAME DAMN LIFE” diverte con i suoi falsetti; un po’ di riff compatti e un po’ di schitarrate vivacizzano l’ascolto. Coretti adolescenziali e minima allegria di base. “SUFFER IT ALL” è il brano dalla più alta carica metallica, anche se il ritornello addolcisce la riffata sulfurea,  e buffo che proprio nella traccia più grintosa il ritornello abbia un’aria beatlesiana. Un bel pezzo tonico in mezzo a situazioni fin troppo morbide. “NOBODY PRAYING FOR ME”, che è la song meno dura, è però una delle migliori perché apre ad un’aria più sognante e di polvere di terra da cavalcare, come un cowboy su spazi aperti. Se pure non c’è il guizzo, preferisco opere come questa piuttosto che certe melensaggini o parti rappate. Ripeto, niente è fuori posto ed è così perché tutto funziona; chi ama particolarmente questo genere ci si troverà bene, alla distanza piacerà poiché è facilmente fruibile senza perdersi in giri sonori inutili.  Godetevi l’ascolto e lasciate perdere questa recensione.

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“REEDEMER OF SOULS” (2014)   Judas Priest (U.K.)

Ricordo, a chi si accinge a leggere questa recensione, che qui sto analizzando un album dei Judas Priest, e sottolineo JUDAS PRIEST; è, nel metal, come se, in musica classica, io stessi valutando Beethoven. Ogni critico si porrà nella situazione difficile di eliminare da sé tutte le aspettative e i preconcetti che immancabilmente cadono su un lavoro di un mito. Sembra automatico andare a cercare a quale disco, della lunga discografia iniziata nel 1974, questo assomigli. Si cade in questo tranello perché i Judas son bravi a non allontanarsi da sé, cioè a rimanere personali, anche risultando sempre differenti. In realtà tal nuova opera è la naturale conseguenza di quello uscito appena precedentemente nel 2008, cioè si percepisce come “Reedemer of souls” sia la prosecuzione di “Nostradamus”, unendovi qualcosa del vecchio passato. Da che lo si denota? Dal fatto di preferire una certa introspezione piuttosto che una agguerrita verve di deflagrazione. Complice la non più virtuosa voce di Halford, che se avesse provato a sforzarsi sarebbe apparsa stanca per età e per super-uso. Ma questa difficoltà noi la subodoriamo, solo perchè conosciamo l’antica potenza della sua ugola. Invece sul disco ciò non traspare, che la bellezza della timbrica e l’interpretazione sono sempre magistrali e gustosamente affascinanti; e stranamente egli fa anche minor uso di sovraincisioni che pure gli avrebbero giovato, proprio per la minore estensibilità. Sembra, al contrario, che Halford sia contento, con la scusa di una vocalità pseudo malata, di potersi dedicare a canzoni maggiormente introspettive e di atmosfera, senza basare tutto sulla potenza (ricerca delle atmosfere, per altro sempre presente nella storia dei Priest). L’introspezione dell’opera “Nostradamus” è interna anche a questo disco, non vi però sono gli sbrodolamenti di allora, i brani prendono la solita forma canzone a loro più confacente. Brani migliori: “HALLS OF VALHALLA” è una song velocizzata piena di epicità, forse  la composizione maggiormente legata all’antico stile della band.  Due parti separate di assolo liquidissimo. “SWORDS OF DAMOCLES” è tra le song più narrative come sensazione, pur non mancando la durezza necessaria. “MARCH OF THE DAMNED” è strana in quanto sembra per sound e per cantato, una canzone di Ozzy Osbourne, anzi, sembra proprio che la voce sia quella di Ozzy. Ma è un’ottima e scorrevole song.  “DOWN IN FLAMES” è cadenzata, ma la linea vocale determina un’altra performance morbida e accattivante. “HELL & BACK” inizia con la stupenda soft voice del nostro, e poi  fa dondolare il corpo con un middle-time ossessivo. “COLD BLOODED” è magica, con quella leggerezza che talvolta i Judas ci hanno fatto sentire senza vergogna. E’ forse il pezzo migliore dell’album, tra cambi di velocità e linea melodica morbida senza essere una canzone calma. “SECRETS OF THE DEAD” è uno dei pezzi maggiormente ragionati e seducente. La ritmica e il tono, con l’assolo alla Deep Purple, ricordano leggermente alcune sonorità di “Perfect strangers” degli anni ’80. “BATTLE CRY” è una veloce song che poteva stare in “Ram it down” del 1988 e dintorni. Ma in parte rappresenta proprio la differenza tra una Power song dall’ugola d’acciaio che fu, e quella odierna che non potendo acutizzarsi, lascia che sia la song a vivere di vita propria. “BEGINNING OF THE END” è forse la ballata che fa pensare all’album “Sad wings of destiny” del 1976. Una melodiosa performance di Rob di cui ci si innamora subito. Spero che il titolo non sia profetico, la fine arriverà ma forse altri due album ce li possono lasciare; se saranno come questo mi andranno bene. Brani minori: “Dragonaut” dovrebbe essere un brano eccezionale perchè brano d’apertura , cioè quello che deve dare impatto. Invece risulta uno degli episodi meno interessanti poiché troppo derivativo; nella linea cantata si avvicina alle cose già prodotte dalla band stessa in passato. Come anche la title-track per via della sua ritmica troppo familiare. “Metallizer” si dedica ad  un cantato che sa un pò Bruce Dickinson e un po’ di Mercyful fate; mentre “Crossfire” usa un ipnotico rifframa Hard Rock come tornando agli anni ’70. Si, va bene. C’è un po’ di Stained Class, dicono tutti. Però io ho voglia di metterci anche un po’ di “Point of entry”, dove la durezza lasciava il posto alla scorrevolezza orecchiabile, ma nei brani migliori di quell’album, quelli dalle ampiezze aeree. E ancora c’è da accennare all’album “Angel of retribution” del 2005 per una piccola nota: in quel disco pieno di audace ferocia, l’episodio considerato tra i migliori fu invece l’elegante “Worth fighting for” ben lontana dal resto del lavoro di cui faceva parte, e se ci fate caso, si tratta proprio dello spirito che invece pervade quasi totalmente “Reedemer of souls”. Se Halford ha abbandonato la cattiveria, la sonorità è costantemente compatta e sufficientemente pesante. La furia oggi ce l’hanno i Primal Fear e i Grave Digger, che si rifanno pedissequamente ai Judas Priest. Se i Judas non hanno più quella pulsione, ne hanno un’altra, che adesso meglio si confà a dei maestri del metallo tradizionale. Se vogliamo, l’ospitata di Halford dell’anno scorso nella song “Lift me up” dei FiveFingersDeathPunch ci aveva dimostrato che la grinta selvaggia è ancora nel cuore del “God of Metal” Halford; ma egli ne ha ormai profusa così tanta che non deve dimostrare più nulla. Se qui manca qualcosa è la frizzantezza del semplice rock’n’roll che altre volte era presente. Per quanto mi riguarda il voto non è basso, se devo fare un paragone, mi viene in mente come lo spirito sia lo stesso di quello offerto dai Deep Purple l’anno scorso; è sbagliato usare l’aggettivo “dimesso”; io direi che è corretto utilizzare la parola “adulto”, nel senso di musica per adulti, cioè un carattere non adolescenziale. Ma adesso entriamo nella verità, siamo oggettivi! In passato non sempre la capacità della band è stata al massimo; molti brani, per quanto decenti, non si alzavano sopra la media già da “Stained Class” del 1988. E che dire di alcuni pezzi in “Killing machine” come “Evil fantasies”? E addirittura in “Point fo entry” la metà è da buttare (“You say yes” è ridicola). Se non fosse stato per la voce di Halford, non si sarebbero salvate. Insomma,  in questo album non ci sono reali cadute di tono come lì; esso possiede un suo particolare fascino. La voce di Halford non è più quella di una volta, d’accordo, ma c’è ancora, e c’è con quel suo afflato da vero rocker. L’album funziona egregiamente, e penso che davvero sia una bella prova che merita voto alto; hanno cercato la finezza compositiva e non quella tecnica a tutti i costi. I Judas cavalcano liberi; lunga vita ai Judas: UP WITH DEFENDERS OF THE FAITH !

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SKY ROBERTACE LATINI

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IN QUESTI ANNI ABBIAMO CORSO COSÌ VELOCEMENTE CHE DOBBIAMO ORA FERMARCI PERCHÈ LA NOSTRA ANIMA POSSA RAGGIUNGERCI

(Michael Ende)

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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.

(Carl Gustav Jung)