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In questi anni abbiamo corso così velocemente che dobbiamo ora fermarci perché la nostra anima possa raggiungerci. (Michael Ende) ---- A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro. Sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (Carl Gustav Jung)

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO

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LA FOTO DELLA SETTIMANA a cura di NICOLA D'ALESSIO:QUANDO LA BANDA PASSAVA...
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576. DUE RECENSIONI (2016) di Roberto Latini

PROGRESSIVE: termine astratto.
Cos’è la Progressive Music? E’ un genere, ma, a differenza di altri generi, non è ben codificabile. Può voler dire sperimentazione, ma anche no. Può voler dire atmosfera, ma anche no. Può voler dire tecnica di alto livello, ma anche no. Può voler dire mescolanza di sonorità, e questo forse quasi sempre, ma non in maniera per forza così ampia. Il prog entra in molti generi, trasforma i generi in qualcosa di più aperto, che accetta le ingerenze stlistiche senza preconcetti. Abbiamo così il Prog-Rock; il Prog-HardRock; il Prog-Metal, e nel metal il Prog-Thrash; il Prog-Black; Il Prog-Power. Il risultato è una serie di band che stanno nell’ambiente Progressive senza assolutamente assomigliarsi. I due album targati 2016, qui di seguito recensiti, dimostrano proprio tale capacità di diversità. Sia i vecchi Kansas che gli attuali Heller Schein sono situabili nel calderone Prog, ma la loro distanza stilistica è lontanissima. I primi classicamente legati alla grande tradizione degli anni ’70 di Yes, Pink Floyd e Genesis, riletta sotto le vesti americaneggianti di maggior accesso e orecchiabilità, lontana da sperimentazioni jazz alla King Crimson; un suono pulito e gentile pur nella rudezza rock di alcuni momenti. I secondi invece totalmente post anni ’80, nella fascia estrema del Prog (senza arrivare alle punte Black/Death) dove i suoni violenti e crespi sembrano ben altro che le suadenti carezze del progressive più conosciuto. In qualche modo, la ormai ben strutturata forma dei Kansas non sembra nemmeno più Progressive, mentre variare col Thrash ancora appare come il voler cercare qualcosa di nuovo. E’ la contraddizione di questo genere, essere chiamato Progressive anche quando l’innovazione è assente. Il termine assume modi di fare musica non sempre univoci, e questo lo rende astratto, e quindi si arriva al limite di non riuscire a classificare bene alcune band. Non è il caso di questi due combi, i cui rispettivi album hanno specificità piuttosto chiare e individuabili; e al tempo stesso sanno essere interessanti, riuscendo a regalare diversi stati d’animo in una serietà compositiva che li fa rimanere nell’alveo della costruzione di un certo rilievo.



“SONIC CLASH WARNING”(2016) degli Heller Schein (Italy)
Etichetta: Hot Pot Recordings.


Esordio di fuoco per questi rudi Bolognesi. Prog-Metal con Thrash incorporato, in un multiforme attacco di musica che appare fortemente Alternative, sebbene usando passaggi sonori molto classici. L’ascolto è sfibrante, sia perché il songwriting è schizofrenico nelle sue modificazioni, sia perché non viene mai zittito il lato esplosivo. Il loro moniker deriva da una song dei Rammstein, per cui è in lingua tedesca e significa Luce Brillante (ma luce piuttosto soffusa, tipo da lampada o candela).  “ASCENSION” è l’inizio dell’album e subito informa l’ascoltatore che la band non seguirà linee rassicuranti ma si esibirà in escandescenze eclettiche. Infatti l’opposizione di agitazione e sofficità si alternano continuamente su tutta la linea strutturale; sono tre caratteristiche divise in ritmicità, acusticità e pseudo-doom. Il pezzo appena commentato è già ad un buon livello, ma è “KARMA” a sottolineare meglio la bontà qualitativa della proposta; è una song ancora più pazza, contrapponendo la forma rutilante a quella più introspettiva e mortifera, si scatena con accenti molto accesi ma sa curare anche il lato introspettivo. La maggior epicità si riscontra nella cupezza della title-track “Sonic Clash Warning” i cui riff non sono totalmente Thrash, pur esprimendo una globalità di tipo metal-classico quasi NWOBHM, sebbene poco ortodosso. L’altrettanto epica “VICKY’S LEGACY” è cantata come se la voce roca di Brian Johnson entrasse in una band più dura degli AC/DC cercando di avvicinarsi ai Cirith Ungol; una sfuriata che non gioca sulla velocità, ma sulla ritmica dinamicità, posta fra Thrash e NWOBHM, e su più atmosferici passaggi centrali. “Grand Father Song” ruba un po’ di atmosfera agli Iron Maiden, ma senza che l’orecchio possa accorgersene subito. Il brano meno riuscito appare “Watching through My Head a Baby”, soprattutto per la linea melodica poco convincente e l’indecisione vocale del cantante; altrimenti avrebbe degli ottimi spunti compositivi. Le urla belluine del cantato acuto fanno venire in mente quelle dei romani Astaroth (anni ‘80) o quelle dei Raven (e anche un po’ dei Savatage), dalla tipologia piuttosto schizoide. Più scura e rozza l’altra tonalità utilizzata, quasi mai davvero growl (solo per brevi istanti) ma la sua alternanza con il versante acuto è perfettamente equilibrata; la voce quando troppo pulita e soft funziona meno. Focosa la sezione ritmica e pesanti gli scoppi d’ira che solitamente non sono un crescendo ma una detonazione che fuoriesce da una pausa. Le irruenze chitarristiche sanno dare un impulso energetico ben collocato nel songwriting, songwriting che non sembra necessitare di assoli (e infatti essi latitano). La durezza e l’intransigenza di certi momenti non perde però mai la fruibilità delle song, e anche quando si passa velocemente da un atteggiamento ad un altro, l’accessibilità è immediata. Tecnicamente non è un album prodotto col massimo della qualità; ma la sensazione di metal alternativo si sposa bene con i suoni utilizzati. I difetti sembrano quasi doverosi in un disco come questo che riesce costantemente a rimanere interessante dal punto di vista dell’originalità; doverosi poiché danno un senso di onestà e del resto non danneggiano il tessuto generale. Pur apparendo come musica particolarmente esuberante non accelera mai in modo parossistico, e soprattutto non esce mai davvero da una concettualità ben codificata, la voglia di fuggire la comune “normalità” metal, non provoca esagerazione nella ricerca della stranezza e quindi non cade nella ridicolaggine, sebbene appaia leggermente ironica.
1.      L'ascensione 2.Karma 3.Grand Padre canzone 4.Twisted Joker
5.      sonico Clash Attenzione 6.Watching per la testa eredità di un bambino 7.Viky
Francesco Massimiliani – vocals   /   Nicola Deodato - guitars
Davide Laugelli – bass   /   Paolo Massimiliani – drums

“THE PRELUDE INCIPIT” (2016) album dei Kansas (USA)
Etichetta: InsideOut.


Una band raffinata che esplicita la sua appartenenza sonora ai grandi spazi, in senso americano tipicamente riconoscibile. La loro musica orecchiabile, ma anche capace di indurimenti sonori, passa dall’Hard rock al semplice Rock, fino alla leggerezza dell’AoR, con tecnicissima spontaneità, inserendo anche sfumature country-folk non molto nascoste; alla fine tutto l’insieme è da sempre stato categorizzato come Prog-Rock o Prog-HardRock; talvolta anche Pomp-Rock per la maestosità di alcuni passaggi. Il loro esordio è datato 1974, e da allora siamo arrivati al full-lenght numero 15. Questo nuovo lavoro è un evento, in quanto sono passati ben sedici anni dall’ultimo “Somewhere to Elsewhere”. C’è una nostalgica reminiscenza anni ’70, rispetto agli anni ’80 che portarono nel gruppo una modernità un tantino troppo laccata e commerciale. E l’impostazione di stampo antico funziona senza apparire stantìo,  grazie alla classe  e al mestiere. I pezzi migliori ricordano al meglio i vecchi fasti degli anni ’70 appunto, come quello di apertura “WITH THIS EARTH”, contemporaneamente docile e grintoso (quest’ultima caratteristica soprattutto grazie al drumming). Bella carica la riffica di “RHYTHM IN THE SPIRIT”, in modalità Hard, che si spegne col basso soffuso e la voce limpida, senza però perdere fascino, fino ad un ritornello perfettamente incastonato dai violini di magnifico effetto. Molto gustosa “THE VOYAGE OF EIGHT EIGHTEEN” dall’essenza folk-rock, grazie soprattutto agli onnipresenti violini; pezzo molto corposo dove i passaggi ritmici sono importanti più della linea melodica. L’episodio più tosto è la ritmata “SUMMER”, leggera nelle strofe, coralmente incisiva nel ritornello, aggressiva nella parte degli assoli, violino, chitarra e tastiere, anticipati da un bel riffare corposo. L’Hard Rock più esplicito è situato nella rocciosa “Crowed Isolation”; riff ossessivo e aperture ariose, non originalissima, ma di forte appeal. Non tutto luccica, le ballata “Refugee”, ad esempio, è un po’ una delusione, ma non perché brutta, anzi, tutto il contrario, ma si presenta come tronca, non sviluppata, senza mantenere quello che sembra promettere; per quanto soavemente densa, si limita a una ripetizione del cantato e ad un finale strumentale rarefatto, particolarmente ad effetto, ma che non ha la pienezza per terminare, dando l’impressione di essere l’intro di qualcos’altro, un bell’intro certo, ma nulla di più. Poi ci sono due momenti che sono un mezzo passo falso; si tratta di “Visibility Zero” che possiede una linea vocale piuttosto banale e “The Unsung Heroes” che pare una canzone natalizia poco tonica. Questi sarebbero i due momenti AoR che non offrono granchè se non un ottimo arrangiamento e due belle parti soliste. Infatti le varie parti strumentali sono sempre pregnanti e significative; la prima delle song appena nominate, offre un assolo di violino elettrico e sferzante, il secondo pezzo invece un soffice susseguirsi di passaggi eleganti. E così avviene per gran parte delle tracce, dove la cura solista è ben strutturata, affidata per la maggior parte al violino, anche se in alcuni momenti pure la chitarra sa farsi prepotente come in “Rhythm in the Spirit”. Niente di particolarmente esaltante fanno sentire le due strumentali, “Section 60” e “Oh Shenandoah”, per quanto piacevoli e non semplici riempitivi. La cover di “Home on the Range”, cowboy folk-song del 1870 scritta da Kelley/Higley, è eseguita senza una rilettura che ne amplifichi il potenziale, riducendosi a mero omaggio, musicalmente poco significativo. I Kansas hanno segnato in modo importante la storia del progressive-folk-rock, rendendosi autori di pietre miliari della musica internazionale, ponendo la melodia in contesti potenti, una stilistica che altre band hanno intorbidato cercando troppa commercialità, come hanno fatto i Toto che sono l’emblema del genere AoR,  e che in parte si rifanno ai Kansas. I Toto eliminarono il lato folk, optando invece per una sfumatura Pop. L’AoR, i Kansas, difficilmente lo sposano in pieno. Famosissima la magnifica ”Dust in the Wind”, ballata inarrivabile del ’78. Qui, in questo pur buon lavoro, manca l’attitudine a quella magia; fortunatamente essi sono in grado di emozionare ancora, tanto da apparire in forma e tanto da non snaturare la loro essenza di musicisti ispirati.

Sky RobertAce Latini



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(Michael Ende)

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A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi.

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